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Il lascito di Morales un Paese in miseria con due bandiere

Alle prossime Olimpiadi di Tokyo del 2021 la squadra di atleti boliviani non saprà sotto quale bandiera schierarsi, considerato che attualmente, sull'asta della facciata del Palacio Quemado, il Palazzo del Governo in cui risiede il Presidente della Bolivia, a La Paz, sventolano due vessilli, dai colori simili, ma dai disegni e i significati diversi. Una è quella votata nel XIX secolo, riconosciuta dalle Nazioni Unite, ma anche dal Cio (Il Comitato Olimpico Internazionale), tre bande orizzontali, una rossa, una gialla e una verde, mentre l'altra è la wiphala, la bandiera a forma di scacchiera coi colori dell'arcobaleno. Rappresenta tutti i popoli indigeni delle Ande, una quarantina di tribù per lo più d'etnia quechua, kichwa, aymara e runasimi, alcune in lotta tra loro per questioni territoriali.

Evo Morales, l'ex granitico presidente socialista di sangue andino, fin dai primi anni Duemila volle unificare i divisissimi popoli andini, mischiandoli alla razza ispanica, ma sotto una nuova bandiera, da rendere poi ufficiale mettendo mano alla Costituzione. Tuttavia Morales, forse per la risicata presenza di ossigeno ai 3640 metri di La Paz, dimenticò che i popoli andini da millenni s'amministrano da soli, pur rispettando le leggi nazionali. Non esiste, però, un loro censimento ufficiale e, soprattutto, ai popoli andini non è mai importato cambiare la Costituzione boliviana per aggiungere la coloratissima bandiera, disegnata dal marketing di Morales per imporre l'identità amerinda. Gli autoctoni chiedono un lavoro, visto che l'Onu ha imposto, dagli anni Novanta, la distruzione di tutti i campi di coca in Bolivia, unica fonte di sostentamento per gli andini. Un problema, irrisolto, cui Morales ha sempre dato, ambiguamente, poca importanza, mentre i narcotrafficanti messicani dei Sinaloa s'intascano venti miliardi di dollari l'anno.

Entrambe le bandiere, sono ufficialmente riconosciute dalla Costituzione, rivista in modo sommario dall'ex presidente Morales che, a corto di maggioranza al Senato, calcolò male i tempi per l'approvazione del vessillo dei popoli andini. Così mentre la wiphala iniziava a sventolare per il Paese, il Senato non l'aveva ancora definitivamente approvata: ci sono voluti dieci anni da quel 2009 e, ufficialmente, è il secondo vessillo, non il primo. Tuttavia ora che anche le popolazioni andine, serbatoio fondamentale per i tre mandati presidenziali di Morales, il sindacalista difensore della coca, hanno preso coscienza di avere la loro bandiera, pretendono che non sia seconda.

Evo Morales, primo capo di Stato di origine amerinda, quindi indigena, dopo decine di politici di sangue ispanico, per tre mandati è rimasto ben incollato alla sua poltrona alla Quemada. Lui sarebbe rimasto anche per il quarto mandato, se non fosse stato costretto a fuggire per presunti brogli elettorali alle presidenziali del 2019, quando per non finire linciato dalle pericolose proteste del popolo, accettò di esiliarsi in Messico su invito del presidente Andrés López Obrador, rappresentante della destra che però tese la mano al comunista autoctono inviandogli il suo aereo presidenziale per salvarlo. I boliviani erano stanchi della sua politica a senso unico, fatta di ingenti aiuti ai popoli andini e briciole al resto del Paese che chiedeva una modernizzazione. Morales è stato accusato di corruzione, di avere usato i fondi destinati alla riconversione dei campi. Riconversioni che poi non sono mai stati realizzate, se non al venti per cento del totale con il denaro proveniente dall'aumento delle tasse alla classe media.

Tuttavia, Morales, oltre a incasinare la Costituzione, a cambiare senza voti la bandiera, a causare il primo colpo di Stato boliviano e ha far scomparire i soldi per i campesinos andini, ha fatto anche cose buone per la sua sinistra socialista: ha risollevato, infatti, a colpi di nazionalizzazioni l'economia di un Paese povero, pur ricco di petrolio e terre rare, ambitissime dall'industria tecnologica e spaziale. Per fare questo si è inimicato la Spagna e tutti i Paesi che avevano aziende petrolifere in Bolivia.

E tornando ai due vessilli, Morales ha scatenato anche una guerra ideologica, calcando ancora di più il divario tra eredi dei conquistadores, quindi ispanici, tassati e derubati della loro bandiera, e i popoli andini, disuniti, di razze diverse che ora pretendono il loro vessillo sull'asta del Palacio Quemado al posto di quella ottocentesca. Qualcuno propone un mostruoso ibrido, poi da rivotare al Congresso e al Senato: le solite tre bande orizzontali e l'aggiunta dei colori da gay pride delle principali etnie andine, dimenticando, però, gli altri quaranta simboli tribali, che mai entrerebbero tutti nel nuovo vessillo col rischio di trasformarlo in una pagina pubblicitaria. La questione rimane aperta.

Tuttavia, gli osservatori internazionali addebitano alla mancanza di ossigeno del Paese andino e non a Morales, un'altra questione, un cortocircuito istituzionale: oltre a due bandiere ufficiali, lo Stato Plurinazionale di Bolivia, secondo la nuova dicitura lasciata da Morales nel 2009, ha due capitali: La Paz e Sucre. La prima, con 816 mila abitanti, tra i 3600 e i 4 mila metri sul mare, è considerata la capitale effettiva, ospitando la sede del Governo boliviano e del potere legislativo ed esecutivo, mentre Sucre, 300mila abitanti, 560 chilometri più a sud e a soli 2800 metri d'altezza, è la sede del potere giudiziario ed è la capitale costituzionale della Bolivia, anche se poi gli incontri diplomatici ufficiali si tengono a La Paz, che tutto il mondo crede unica capitale boliviana, per la sua abbondante storia. E per i boliviani sceglierne una sola, è come decidere sulla bandiera: tempi boliviani politicamente infiniti.

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