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Caravaggio e Maradona geni nei vicoli del male

Mentre i musei sembrano sepolcri, i riti che vi si celebrano sembrano cerimonie funebri. Vedevo ripartire dal Trentino, nella notte scorsa, dopo che una nuova lastra tombale era stata calata sui musei, il Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, trasportato dalla sua solenne parete dentro il vagone bianco, innalzato su una gru, con gesti lenti. Ho seguito la cerimonia fino in fondo, pensando alla fine di una impresa faticosa e potente, e vedendo malinconicamente ritornare il dipinto a Siracusa, gloria del Santuario della Santa, in tempi in cui tutto è vietato, processioni, culti, feste in onore della amatissima Santa che sarà sul suo altare il 13 dicembre, nella desolazione e nella paura.

Nel frattempo, la morte di Maradona ci consente di ritornare a Caravaggio e meditare sul rapporto fra il bene e il male, continuando le riflessioni fatte con Giulio Giorello nel dialogo pubblicato da La nave di Teseo. Non è stato difficile per me indicare l'affinità fra i due straordinari personaggi, entrambi maledetti, capaci di opere sublimi e di comportamenti sordidi, quando non criminali. Eppure il male si consuma, e il bene resta. Inutile cercare di dividere arte e vita, esprimere riserve, come molti hanno fatto, nella cronaca recente, per Maradona. Un giudizio morale che l'arte spazza via. Oggi è evidente anche per Maradona, come lo fu per Pasolini e per Caravaggio, del quale i limiti sono stati conosciuti e rappresentati nel giudizio come per personalità bipolare. Ma la morte allontana il male, lo cancella e ne indica il limite perverso.

Maradona ha fatto male a se stesso e bene agli altri, ha donato felicità, ha riscattato Napoli da mortificazioni e umiliazioni. Ha regalato sogni; e i sogni rimangono. Le emozioni restano: in fondo un goal è un'opera d'arte, e determina una reazione che si moltiplica e accende gli animi. Non possiamo dire: Maradona ha giocato magnifiche partite ma è stato drogato, amico di camorristi, violento con le donne. Sarà stato, ma è stato. Così Caravaggio è stato prepotente, ingiusto, ha ucciso, ha cercato guai e, come Maradona, alla fine ha fatto più male a se stesso. Quel male, a sé e agli altri, è finito. A Roma lo ricorda Karel van Mander, fotografandolo nella vita: "Egli è un misto di grano e di pula; infatti non si consacra di continuo all'ozio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all'altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare". Ma tutto quello che ha fatto, l'infrequentabile, non solo è finito, ma la sua opera resta, frequentabili stima e frequentatissima. E il male gli è servito per capire la vita fino in fondo. Davanti alle sue opere noi sentiamo che egli ha conosciuto l'uomo come nessuno prima di lui.

A Napoli ha visto nella strada quello che, come in un film neorealista, ritroviamo intatto nelle Sette opere di misericordia, un vicolo di Napoli dove ogni cosa accade, dove si affollano i corpi, e Dio è lontano. La Madonna appare in un volo d'Angeli, ma cerca di non farsi vedere. È consapevole che non potrebbe fare nulla, assiste ma non può aiutare gli uomini, che sono interamente responsabili del loro destino. E quando, qualche tempo dopo, rientrando da Malta arriva a Siracusa, è ormai consapevole che nulla potrà cambiare la sua dannazione, che la sua vita è arrivata alla fine, e che il bene è un'illusione. Così immagina la povera Santa, umiliata, senza luce, schiacciata a terra mentre due uomini crudeli scavano la fossa per nascondere il suo corpo. Sono veramente due mostri, dipinti velocemente nella loro prepotente corpulenza. Uno con un bagliore di consapevolezza, l'altro come una bestia, un maiale. Sono lì, ad allontanare ogni speranza, a far sentire che ogni illusione è spenta. Il gesto del vescovo è vano, i devoti immobili e annichiliti, impotenti. Caravaggio ci dice che non c'è speranza, non c'è luce. Il macabro rito avviene nel buio, dentro una latomia, una cava senza luce, fra le cupe rocce, nel cuore della terra. Eppure davanti a questo racconto macabro, dentro questa fossa, e anche, oltre quello che il dipinto è stato, nelle attuali condizioni di conservazione fra cadute di colore, lacerazioni, abrasioni, si alza qualcosa che nessuno prima di lui ha descritto: la rabbia contro il male, l'urlo contro la violenza. Ma non sarebbe stato possibile senza quel male, senza quella violenza. Nessun teatro, nessun infingimento, nessuna idealizzazione. Senza il male di vivere, Caravaggio non ci avrebbe parlato.

Caravaggio osserva e riproduce la realtà esattamente com'è, una fotografia non in posa, ma nell'hic et nunc di una realtà colta di sorpresa, nell'"attimo decisivo" di un grande fotografo come Henri Cartier-Bresson: fotografia come attesa e cattura del momento in cui la realtà si sta determinando. Con Caravaggio, per la prima volta, l'arte è la realtà delle cose come sono nella loro verità, senza finzioni. Perciò Caravaggio sceglie provocatoriamente i suoi soggetti, sapendo di mettere in crisi non solo i valori tradizionali dell'arte, ma anche quelli della morale e della religione. Dipinge i pezzenti delle strade di Roma o di Napoli e li trasforma in santi; converte prostitute in madonne, ragazzi di vita e di strada in personaggi biblici o mitologici, con la loro fisicità, facendocene sentire gli odori, nella luce e nell'ombra.

Maradona gioca con il Napoli, si batte per i ragazzi di Forcella, dei vicoli bui, dei vasci che non vedono la luce del sole. Ma in campo è regale, magnifico. Come Caravaggio che guarda in faccia il male, la malattia, la morte, in un mondo senza morale, Maradona vive in modo dissoluto, tra droga ed alcool, con frequentazioni improbabili, in un cupio dissolvi che accorcia la sua stessa esistenza. Caravaggio dipinge i piedi fangosi che descrivono la povertà e la miseria. Per Caravaggio, gli eroi sono gli ultimi, non è interessato ai turbamenti delle anime belle. Ma il male finisce, e restano gli uomini davanti alle sue opere immense dominate dalla forza del male, perché nulla sia nascosto. Il bene non si trova in natura; ma esce dalla lunga esperienza del male e della sofferenza.

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