BANGKOK – L'atollo di Bhashan Char emerse dalle acque della Baia del Bengala vent'anni fa, 160 km a sud della capitale Dacca sull'estuario di uno dei grandi fiumi alluvionali. Per qualche tempo le autorità del Bangladesh, beneficiarie di quei 40 km quadrati piatti, temettero che l'Oceano la riportasse via al primo monsone e le diedero il nome che significa infatti Isola fluttuante. Invece è ancora lì, e ci sono state costruite abitazioni per 100mila esseri umani senza altra alternativa, i rifugiati musulmani Rohingya esuli dopo i massacri e le pulizie etniche condotte in Arakan nel 2017 dai soldati birmani.
Negli ultimi due giorni, a bordo di navi della Marina, è cominciato il processo di trasferimento dal più grande e ultra-affollato campo profughi di Cox bazar, ma solo organizzazioni e Ong non indipendenti possono verificare l'autenticità della scelta volontaria assicurata dal governo di Dacca. Molti profughi sono stati intervistati e hanno negato di aver saputo che il loro nome fosse nella lista per l'isola, come una 50enne esule a Kutapalong che ha deciso di nascondersi pur di non farsi deportare lontana dai figli, in balia del mare e del vento. "Non voglio morire da sola in mezzo al mare" ha detto a NPR Tv. Altri hanno giurato che non ci andranno mai, e preferiscono l'attuale sudicio campo profughi all'isolamento in mezzo al mare.
Cox Bazar ospita gran parte dei 700mila Rohingya fuggiti tre anni fa e altri esuli precedenti, più di un milione. E' un enorme accampamento dove mancanza d'igiene, i rischi del Covid e una microcriminalità diffusa inevitabile nelle loro condizioni disumane hanno esasperato il governo bengalese, che pure riceve aiuti internazionali per assisterli. Da qui provengono tutti i primi 2500 nuovi cittadini, volenti o nolenti, di Bashan Char, ricevuti con qualche cerimonia ufficiale e cibo garantito per un mese. Poi si vedrà.
La necessità di decongestionare Cox Bazar ha avuto il sopravvento sul parere espresso dalle Nazioni Unite già nel 2015, quando mando' un team a verificare l'isola e la definì non adatta ad essere abitata. La stagione delle piogge spazza via infatti ogni anno interi villaggi dove c'è qualche albero lungo la costa, figurarsi su una terra piatta in mezzo all'Oceano Indiano dove il riscaldamento climatico ha aumentato la frequenza di cicloni e trombe d'aria. Ma quando nell'aprile scorso 306 profughi vennero salvati sulle coste malesi furono i primi a essere deportati qui, in quella che le organizzazioni umanitarie chiamano già l'"Alcatraz dei Rohingya".
di PIETRO DEL RE
Visibile sopra lunghe e ammassate costruzioni a due, tre livelli dai tetti rossi con celle in cemento per ospitare le famiglie e altre palazzine multipiano, svetta una torre di guardia per la polizia, che disponeva di una settantina di uomini, aumentati a duecento per tenere d'occhio i nuovi 2500 "rilocati", destinati presto a diventare molti di più con conseguente maggiore presenza delle forze di sicurezza e una vera stazione di comando. Il costo totale delle costruzioni e dei servizi come la moschea, i due ospedali e le 4 cliniche comunitarie in parte già in funzione è stato di 100 milioni di dollari. Non è chiaro se anche il Myanmar ha partecipato al finanziamento, visto che a sua volta si è detto disponibile, sulla carta, a riprendere una parte dei Rohingya che passeranno da Bashar Char.
Pochi credono a questa eventualità. Nell'accordo tra governo di Aung San Suu Kyi e quello bengalese firmato all'indomani dell'esodo biblico, il ritorno dei Rohingya in patria era previsto nel gennaio 2018. Ma non è mai successo, anche perché chi è scappato ha ragione di temere le promesse dell'esercito e del governo birmani e non dimentica gli orrori visti, anche se la Nobel Suu Kyi ha cercato di negarli.
Con ben poche alternative praticabili, è già cominciato comunque l'esame dei progetti delle organizzazioni non governative selezionate da Dacca. Secondo Phil Robertson di Human rights watch "è un disastro che aspetta di accadere", mentre le Nazioni Unite escluse dalle trattative ammettono di sapere poco dell'intera operazione che richiederebbe quantomeno una verifica delle condizioni di vivibilità e "il pieno consenso" dei Rohingya.
Le organizzazioni dei diritti umani hanno nel frattempo raccolto le testimonianze dei primi 300 Rohingya portati sull' "Isola fluttuante" ad aprile. Dicono che gli è stata negata la libertà di movimento e non hanno accesso a posti di lavoro sostenibili o a un'istruzione per i figli.Original Article
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