Va ricalcolata al ribasso la pena definitiva per Adam Kabobo, il trentottenne ghanese che l'11 maggio 2013 uccise a picconate tre persone e ne ferì altre due a Milano. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza del gip di Milano del 27 novembre 2019, che ha riconosciuto la continuazione tra i reati oggetto delle due sentenze di condanna (gli omicidi e quelli tentati) e calcolato la pena complessiva da scontare in 42 anni di reclusione, ridotti a 28 per l'abbreviato. Tra i motivi addotti dalla difesa per l'annullamento e accolti dalla Suprema Corte , "l'ordinanza impugnata si è limitata a indicare gli aumenti di pena, rilevando la conformità della scelta compiuta rispetto al parere del pubblico ministero, annotazione che, senza alcuna indicazione delle argomentazioni condivise, non rende ragione della decisione assunta".
Franco Vanni
Kabobo oggi si trova recluso nel carcere milanese di Opera con il regime detentivo 41 bis, che tra le altre restrizioni prevede l'isolamento in cella. L'11 maggio 2013 seminò il terrore nel quartiere Niguarda: imbracciando un piccone uccise tre passanti e ne ferì altri due. Un'azione perseguita con ferocia e senza un vero movente. Quel mattino Kabobo, come scrissero i giudici d'appello, uccise per "rancore e sfinimento per le sue esperienze di quotidiana lotta per la sopravvivenza", compiendo una "azione criminale agevolata dalla malattia" mentale. Morirono Daniele Carella, 21 anni, Alessandro Carolè, 40 anni, e Ermanno Masini, 64 anni.
Kabobo, come ha spiegato uno dei suoi legali, l'avvocato Benedetto Ciccarone, che lo ha assistito con la collega Francesca Colasuonno, è stato sottoposto a cure psichiatriche e le sue condizioni sono a poco a poco migliorate. Tanto che, come prevedono i normali programmi di recupero sociale dei detenuti, può svolgere alcuni lavori nella casa di reclusione, anche di pulizia, e ha deciso di mettersi a studiare a partire dal programma delle elementari, dato che non è mai andato a scuola. Dalle oltre 180 pagine della relazione psichiatrica, che venne depositata e allegata agi atti dell'inchiesta, era uscito fuori un racconto confuso, a tratti allucinato, di un immigrato con disturbi mentali sbarcato da clandestino a Lampedusa, dopo aver visto morire il fratello in Africa, e entrato prima nei Cie e poi in carcere, sempre accompagnato da quelle che lui chiamava "voci" che sentiva in testa e che avrebbe sentito anche quella mattina dell'11 maggio. "Queste voci mi dicevano – aveva tentato di spiegare ai periti – che la popolazione africana, la parte del nord anche loro stavano uccidendo le persone a picconi quindi mi sono sentito anch'io di fare la stessa cosa".
Emilio Randacio
di EMILIO RANDACIO
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