CI sono tante bambine che, come me, avrebbero voluto giocare a calcio, ma hanno dovuto rinunciare: perché non esistevano le strutture adeguate, oppure i loro genitori non hanno voluto («Cosa giochi a fare a calcio? Non è uno sport da femmine») o perfino perché derise per la loro passione. Bambine che alla fine hanno scelto di fare “qualcosa da femmine”, appunto. A me, invece, non è mai successo nulla di tutto questo». Ora è una calciatrice ad alti livelli. Esordisce così la capitana della Nazionale di calcio femminile e della Juventus Women, Sara Gama nel suo libro La mia vita dietro un pallone, (Ed. DeAgostini) storia della sua carriera, dalle partitelle con gli amici (solo maschi, all’inizio) ai Mondiali di calcio femminile di Francia 2019. Perché, nonostante abbia solo 31 anni, di cose da raccontare ne ha tante. Nata a Trieste da mamma italiana e papà di origine congolese, ha fatto tutta la scalata: dalle piccole squadre di provincia fino ai grandi club di serie A. Ha giocato per un anno al Paris Saint-Germain e si è laureata in Lingue e Letterature straniere. Inserita da Forbes tra le 100 donne più influenti d’Italia, due anni fa la Mattel l’ha anche presa a modello per realizzare una Barbie per la sua energia «in grado di ispirare ogni bambina a perseguire sempre i propri sogni»
di
Deborah Ameri
Quando ha deciso di scrivere un libro sulla sua storia?
«La proposta è arrivata dagli amici della DeAgostini, ma devo dire che mi è piaciuta subito l’idea di scrivere un libro rivolto ai ragazzi e alle ragazze e anche a quegli adulti che vogliono leggere una storia leggera, ma utile. Quando poi ho iniziato a scrivere mi sono accorta che la narrazione veniva fuori naturalmente e che mi permetteva di rivivere certi momenti, anche difficili, che magari non avevo mai raccontato prima. Quindi alla fine è stato utile anche per me, aiutandomi a scoprirmi a fondo, e non posso che essere felice che qualcuno mi abbia dato la possibilità di farlo».
L’obiettivo è quello di motivare le più giovani a non fermarsi davanti ai pregiudizi?
«In realtà, non c’è da parte mia, l’intenzione esplicita di dare un messaggio o essere un simbolo. Certo, mi accorgo che quello che sto facendo stia aiutando ad abbattere certi stereotipi sugli sport solo maschili o solo femminili, ma non è qualcosa di cui mi sono fatta carico. Semplicemente è il risultato della mia storia. Sia io che le mie compagne, nel percorso che abbiamo fatto per arrivare fin qui, ci siamo sentite dire spesso “perché giochi a calcio che è roba per maschi?”, ma per resistere ce ne siamo un po’ infischiate. Siamo andate avanti, ci siamo allenate e basta».
Una delle frasi che si sente ripetere spesso è che le donne non riescono a fare squadra. Qual è la sua esperienza?
«Per me non è stato così. Chiaramente io sono cresciuta praticando uno sport che per sua natura è di squadra, quindi le ragazze che ho incontrato avevano una certa mentalità e una naturale predisposizione a condividere e sostenere. Non credo comunque sia un atteggiamento che manchi di base, semplicemente è qualcosa che solo da pochi decenni stiamo sperimentando nello sport».
di IRMA D'ARIA
Giocare a calcio aiuta una ragazza a coltivare questo spirito?
«Assolutamente, come per gli atleti maschi d’altronde. Non c’è differenza. In campo si impara a collaborare, a passare la palla a una compagna per portare a termine un’azione. Poi certo, come nel calcio maschile c’è chi è più individualista, ma è questione di carattere, non di genere».
In un’intervista lei ha detto che il suo sport fa bene a livello mentale e anche fisico. Eppure c’è ancora qualcuno che dice che rende il corpo di una donna troppo androgino. Che ne pensa?
«A me il calcio ha fatto sicuramente bene per crescere come individuo a 360°. Ma è lo sport in generale che fa bene, perché stimola il corpo a produrre sostanze che migliorano l’umore e il metabolismo, insomma aiuta a crescere in salute e a stare bene con se stessi. Quanto a certi commenti, mi sembra evidente che i canoni femminili stiano nettamente cambiando, così come quelli maschili d’altronde».
Nel libro scrive “difficilmente in una partita tra ragazze si assiste a episodi di violenza, che sono comuni nel calcio più noto. Ma il calcio femminile non è una cosa a sé rispetto alla società”. Lei hai subito episodi sgradevoli di discriminazione o razzismo nella tua carriera?
«Come ho già detto, a me non è successo. Al Mondiale ci sono stati alcuni commenti offensivi che sono stati riportati dalla stampa, ma per un paio di insulti divulgati c’erano comunque migliaia di complimenti e messaggi positivi che non sono stati citati. Fino a poco tempo fa, il calcio femminile era una disciplina di nicchia, un settore “puro” dove noi atlete portavamo avanti il nostro gioco e i nostri valori, senza interferenze. Ora è diverso. Sta diventando noto anche al grande pubblico, abbiamo tifoserie che ci seguono. Mi aspetto che inevitabilmente tutto questo rifletterà alcuni sentimenti, anche negativi presenti nella società. Credo però che si possa affrontare e modificare più facilmente un fenomeno nel momento in cui compare rispetto a quando ormai è consolidato in un sistema da anni».
Cosa direbbe a una giovane calciatrice che è tentata di mollare perché bombardata di giudizi sul tipo di sport che ha scelto?
«Le direi che ognuno di noi deve continuare a fare ciò che vuole, ciò che sogna e desidera. E questa è la cosa più difficile di tutte. E poi le direi qualcosa che a me nessuno poteva dire quando ho iniziato e cioè: guarda che si può fare, c’è qualcuno che c’è riuscito e che è felice, ha realizzato il suo sogno e ha anche partecipato ai Mondiali con la maglia azzurra. E quel qualcuno sono io!».
di VIOLA RITA
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