Roma città eterna? Dipende dai punti di vista. Perché se si lascia quello della storia, per adottare lo sguardo suggerito dalla fantascienza, anche il più consolidato tra i luoghi comuni rischia di estinguersi sotto la polvere della devastazione. E nella malinconica atmosfera di questo Natale assai poco natalizio, forse il più austero dai tempi di guerra, può essere utile immergersi nella lettura di quegli autori che si sono divertiti a sfigurare la capitale in teatro del disastro, ciascuno con il suo stile ma con un comune intento catastrofista.
Uno dei cataclismi più deliziosi l'ha architettato Guido Morselli, elegante scrittore del fantastico. In Roma senza papa (Adelphi) trasferisce il pontefice dalla reggia di San Pietro nella campagna di Zagarolo, ambientando il suo romanzo – scritto nel 1966 e pubblicato postumo nel 1974 – alla fine del XX secolo. Per raggiungere Giovanni XXIV – è il nome del nuovo papa irlandese – un sacerdote svizzero deve ricorrere a un elicottero. Niente sfugge al suo sguardo penetrante che s'allunga su una città depressa, impigrita, abbandonata dai turisti, mortificata da quel trasloco papale che i romani non perdonano. E il risentimento traspare dai graffiti pieni di livore e da un generale decadimento morale con folle di prostitute che affollano i marciapiedi nel cuore della città. Qualcuno spera che l'arrivo del personale dell'Onu possa cambiare le sorti di Roma. Ma alla fine la capitale si assesterà in una decadenza stabile, tra il ricordo di antichi splendori e una pigra indifferenza, che tutto accoglie e stempera.
Morselli è in fondo molto dolce nel descrivere il futuro di Roma, mentre ci sono romanzi in cui la città eterna patisce orrori peggiori di un papa in fuga. Nella sua ultima saga, conclusa poco prima della morte nel 2008, l'Occhio del Sole (Nord), un anziano Arthur C. Clarke, l'autore dell'Odissea nello spazio, in coppia con Stephen Baxter immagina un attentato terroristico che spazza via San Pietro. Niente bombe: viene fatto precipitare direttamente uno space shuttle.
Più di recente Roberto Recchioni, con la band "Il muro del canto", firma un fumetto, RSDIUG, che senza pietà e con umorismo macabro brucia la capitale per mano di una creatura dell'apocalisse, mentre tutti sono in coda sulla Via del Mare, la terribile multicorsia Cristoforo Colombo. Per chi se lo stesse chiedendo, la sigla del titolo sta per Roma sarà distrutta in un giorno (Feltrinelli Comics).
Immagini più edificanti caratterizzano il racconto L'espresso delle stelle del settantenne americano Michael Swanwick, che compare nella raccolta collettanea uscita in primavera sulle pagine di Urania (Infiniti universi). I mondi dell'antologia saranno pure illimitati, ma qui ci troviamo di nuovo tra le strade del centro (del resto ai non romani è noto soprattutto quello): "Flaminio, il portatore d'acqua, viveva nella parte più vecchia dell'antica città di Roma", leggiamo all'inizio. Di nuovo, un po' di decadenza. Il papa non c'è, dimenticato, come finiti sono pure i tempi di un grande impero intergalattico. Ma poi qualcosa è accaduto e le "astrovie", percorsi eterei che collegavano in pochi secondi pianeti distanti anni luce, si sono spente. La città però è in piedi, forse con qualche cosa di alieno acquisito negli anni. Ora è più povera e manca l'acqua ai piani alti, ma Colosseo e Pantheon rimangono, così come resistono le notti di luna piena dei mesi autunnali.
Tramonti e pleniluni ritornano ne I canti di Hyperion di Dan Simmons, autore di una fortunata tetralogia che, pur ambientata nel XXVIII secolo, trae titoli e personaggi da vita e opere di John Keats, il genio morto giovane nella sua stanza vicina a Trinità dei Monti. In uno degli episodi del primo titolo della serie, seguiamo un Keats androide e un'investigatrice cyberpunk per le strade di una Roma di inizio Ottocento. Peccato che si tratti di una ricostruzione voluta da potenti intelligenze artificiali col gusto per la poesia. Tecnicamente, l'intera Terra è sparita secoli addietro, appena l'umanità ha iniziato ad abitare in altri mondi. I sampietrini però ci sono tutti e portano a piazza di Spagna. "È un analogo", dice il simulacro del poeta, qui chiamato solo Johnny, mentre conduce la detective nelle sue stanze. Quello che segue è davvero un paragrafo insolito per un libro di questo genere: "Le finestre guardavano su quella che Johnny chiamava "la piazza"; con lo sguardo potevo risalire la scalinata fino a una grande chiesa giallo-marrone e scendere fino al punto in cui una fontana a forma di barca faceva zampillare l'acqua nella quiete della sera". I nomi dei luoghi si dimenticano, ma l'effetto resta lo stesso.
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