"Napoli è un pentolone dentro cui bollono liquidi che non si mischiano mai pur stando a contatto". È cosi che Maurizio de Giovanni definisce la sua città. Ha appena pubblicato con Einaudi il trentesimo romanzo, Fiori, con protagonista la squadra dei Bastardi di Pizzofalcone, in cui affronta tematiche finora inedite come l'omofobia e e gli anziani, approfondendo il rapporto tra i personaggi e la comunità in cui si muovono.
Trenta romanzi sono tanti. Lei è stato definito lo scrittore più prolifico d'Italia. Non smette ma di inventare storie.
"In realtà ne racconto solo una parte, la città me ne offre molte di più".
Troisi diceva: "Loro sono in tanti a scrivere e io da solo a leggere". Per lei è il contrario: sono in tanti a suggerire e lei da solo a scrivere?
"È così. Mi basta ascoltare una conversazione per la strada, in un bar o scorgere una notizia sul giornale: insomma qualcosa che faccia scattare la scintilla per costruirci una storia".
A Pizzofalcone? Perché ambienta proprio lì i suoi romanzi con la squadra?
"È un luogo fondativo, identitario, di Napoli. Sul monte Echia stava la sirena Partenope. Ma al di là della mitologia, questo quartiere, in uno spazio relativamente piccolo, racchiude le anime della città. C'è la parte popolare che comprende una porzione dei Quartieri spagnoli, c'è la parte commerciale di via Chiaia, quella finanziaria di piazza dei Martiri e il lungomare aristocratico che è altra cosa ancora. A Pizzofalcone c'è un'interazione tra differenti appartenenze sociali con interessi e obbiettivi spesso in contrasto. Ecco perché è un quartiere interessante per un comissariato. Lì le indagini attraversano le varie componenti della città".
Gli scrittori sono ladri di vita altrui. Lei prima di scrivere del quartiere ci passa del tempo?
"Come no? È appena dietro piazza del Plebiscito. Mi ci immergo. Tra l'altro il panorama è bellissimo".
Uno dei suoi idoli è Ed McBain, ma non saprei immaginare uno scrittore più lontano da lei per approccio alla realtà e tessitura narrativa. Come mai?
"Lo so, siamo molto diversi, ma è stato il primo a introdurre l'idea della squadra investigativa. Con lui il poliziesco diventa corale, polifonico. Ecco, quello che mi è sempre piaciuto di McBain: questa narrativa frazionata, non centrata su un unico protagonista".
Lei racconta Napoli attraverso il romanzo a indagine, ma non parla mai della Camorra che pure è protagonista della malavita cittadina. Perché?
"Non sono un negazionista. La Camorra purtroppo c'è e fa parte del panorama malavitoso napoletano, ma io racconto delitti passionali. Non mi interessa parlare di questo fenomeno in modo sistematico, anche perché non ho studiato i meccanismi della Camorra. Le mie storie riguardano i sentimenti, non la finanza, la corruzione o la politica. Non sono interessato al funzionamento della macchina camorristica, ma a quella dell'animo umano".
La sua Napoli è molto diversa da quella di Roberto Saviano. Tra due immagini di città c'è un punto d'incontro?
"Roberto interpreta una fiction molto vicina alla saggistica. Lui ha studiato il fenomeno e racconta la Camorra dall'interno con un'operazione meritoria, ma il taglio della mia narrativa è diverso. D'altra pare ci sono tante immagini di Napoli: quella aristocratica, quella borghese, quella proletaria. Questa è una grande capitale del sud del mondo con tre milioni e mezzo di abitanti e ognuno ne riflette un aspetto. C'è la Napoli di Elena Ferrante, quella di Valeria Parrella, di Amleto De Silva, di Lorenzo Marone… Qui ci può stare il romanzo storico, quello esoterico o di fantascienza".
È per questo che è così fedele e rifiuta di ambientare le sue storie altrove?
"Perché dovrei? Qui trovo tutto. Volete una storia con una dama del Seicento, un romanzo sulla pandemia o un intrico di servizi segreti deviati? Qui si trova. In nessun'altra citta esiste una tale varietà di spunti concentrati in un solo luogo. È nella natura di Napoli. Può essere che nello stesso palazzo abitino famiglie ricche con l'attico vista mare e ai piani inferiori dei poveracci che tirano a campare".
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Non pensa che il noir, nato eversivo e inquietante, ultimamente abbia perso la ferocia della denuncia sociale che ne costituiva un fondamento?
"È venuta meno la contrapposizione di classe. Dove sono le manifestazioni di piazza, gli interessi collettivi come quelli del movimento operaio? Svaniti con le ideologie che facevano da collante. Dunque oggi non potendo più raccontare il conflitto fra ceti portatori di interesse, raccontiamo gli individui e le loro rivolte solitarie, quelle dei disgraziati costretti in situazioni difficili. Occorre essere realisti".
Qual è il suo metodo di lavoro prima ancora di mettersi a tavolino?
"Ho un approccio emotivo ed emozionale con le storie dunque le racconto usando i personaggi adatti a quel tipo di vicenda. Così ne può scaturire un racconto sentimentale, uno nero, un'indagine polifonica coi Bastardi… Studio molto la trama, tanto che questa fase può durare mesi e una volta che tutto è a posto nella mia mente, comincio a scrivere. Il tempo della stesura non è lungo, in genere un mese. Scrivo per immersione. In presenza del delitto, parto dalla vittima e mi chiedo chi ha ucciso, perché, in che circostanza, in che contesto. Quindi compio il cammino a ritroso e quella è l'indagine".
Ogni scrittore ha qualche fissazione, come Simenon che aveva bisogno di matite temperate e un taccuino intonso. Lei?
"Disegno su un foglio A3 le componenti del romanzo. Al centro la storia principale, poi quelle secondarie come satelliti. Definisco anche i capitoli di ciascuna per rendere equilibrato lo svolgimento. I capitoli non devono superare le 5-6 cartelle perché il lettore ha diritto a una pausa in cui far decantare ciò che ha letto. È un lavoro artigianale, non artistico".
Qual è la differenza?
"Il lavoro artistico segue un'ispirazione, quello artigianale è più un lavoro di composizione. Io mi ritengo uno scrittore d'evasione, desidero tenere compagnia al lettore e non ho l'ambizione di essere ricordato dai posteri o di entrare nella storia della letteratura. Molti cercano la trama che possa sorreggere la loro scrittura, io no. Ho una scrittura semplice, vivo coi miei personaggi. Prendo a prestito un esempio dalla musica: c'è il chitarrista che interpreta melodie e c'è Eric Clapton di cui non se ne ricorda una. Ecco, io voglio essere fischiettato sotto la doccia".
Sul Venerdì del 4 dicembre 2020Original Article
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