Comincia oggi un breve giro d'orizzonte nel centro di Roma, per vedere come alcuni ristoranti stanno resistendo alle grandi difficoltà causate al settore dell'enogastronomia dalle misure anti-Covid.
Si parte da Per Me, tra Via Giulia e Piazza della Moretta
Ha attraversato la tempesta del Covid accarezzando la pancia della sua dolce Flaminia che aspettava la loro prima figlia; appena uscito dal lockdown ha tirato su la saracinesca e non ha più chiuso un giorno, mentre attorno a lui – nel cuore della Vecchia Roma – piccoli trattori e grandi chef si interrogavano titubanti sul da fare. E quando è nata Cecilia ha cominciato a sfornare nuovi piatti, quasi una paternità gastronomica che compensasse il tempo sottratto alla cura della famiglia diventata più grande. Ma Giulio Terrinoni è un maratoneta, al punto che nei cinque anni del suo Per Me non ha tirato mai il fiato.
Così l’ho trovato alla ripresa autunnale, caricato a pallettoni e confortato da un pubblico di affezionati, qualche straniero attratto dalla stella cometa Michelin ma in larga maggioranza italiani alla (ri)scoperta di Roma.
Mentre il fresco cede il passo al vento freddo che sale dal Lungotevere, in una giornata di sole resistiamo attovagliati ad un piccolo tavolino all’aperto. Ma dopo l’aperitivo, meglio spostarsi all’interno: tanto è minimalista e raccolto il locale, diviso in tre sale, quanto è di ampia portata la linea di cucina, dedicata esclusivamente a Sua Maestà il pesce. Una orgogliosa cucina di mare, quella coltivata da anni, prima in un brutto posto davanti alle viscere di cemento armato alle pendici della collina Fleming, poi nel cuore del più vivace distretto gourmet della Capitale.
La squadra è formata e fedele al capo, e la formula gli garantisce una discreta base di lavoro, anche se – come dico al maître sommelier, il sornione Fabrizio Picano – la intelligente e ambiziosa carta dei vini andrebbe ampliata, e con etichette meno impegnative. I fatti però gli danno ragione. Il profumo del mare esplode subito, mai violento, e sempre domato dalla mano che rispetta sì le creature sottratte al regno di Nettuno, ma le piega ai suoi voleri: prendiamo il carpaccio di scampi, ormai ubiquo, eppure la sua dolcezza viene bellamente messa alla prova da quattro cubetti di foie gras marinato e bolle di gel di cipolla. Un gioco di sponda che si esalta ancora nella triglia, assortita da castagne e salsa al dragoncello.
Se si esclude il libidinoso piccione in tegame al rosa – l’intruso che non manca mai – Giulio ha fatto della sostituzione con ogni possibile tipo o pezzo di pesce, di ogni possibile tipo o pezzo di carne, derivato da qualsiasi animale, la sua cifra, sistematicamente e ossessivamente. E non è stato facile convincere già quindici anni fa gli avventori che la sua Carbonara di mare non solo poteva tranquillamente fare a meno della pancetta ma che uova di pesce e bottarga regalavano una spinta altrettanto gagliarda al grande classico laziale. A proposito di gagliardìa, ho trovato spettacolari – mangiati e rimangiati – i ravioli di broccoletti, carichi di alici scottadito, colatura e tartufo nero, e la polenta con lumachine, mentre al risotto con scampi, aglio nero e asparagi di mare avrei tolto un eccesso di acidità da limone. Azzeccato a seguire il Roastfish (altro che beef!) di cernia alla brace, con scarola, uvetta e pinoli. Più ardito e molto interessante il richiamo alle interiora: Quinto quarto di rana pescatrice, ovvero testa, fegato e stomaco.
Di serena e rassicurante navigazione i dolci, rivolti ad una classica tarte-tatin, al Moon Blanc di stagione (cavallo di battaglia) con castagne, meringa e panna, e al tutto cioccolato, presentato in cinque variazioni. Impossibile non cedere ad un piccolo tumbler di whisky, conservato ed estratto quasi religiosamente da una nicchia che sembra un tabernacolo alcolico…Original Article
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