NANCHINO – Gli agenti cinesi starebbero già prendendo di mira i membri del team di Biden e le «persone a lui vicine». A dirlo, ieri, è stato William Evanina, direttore del Centro nazionale per il controspionaggio e la sicurezza, a un evento dell’Aspen Institute. «Saremo molto determinati ad assicurarci che la nuova amministrazione comprenda questa influenza e come avvertirla quando si presenta». Affermazione non circostanziata, che la squadra del presidente eletto non ha commentato.
Intanto, nei suoi ultimi giorni al potere, Trump prova ad assestare qualche ulteriore colpo alla Cina. Una serie di affondi dalla portata limitata, ma il cui obiettivo è rendere più difficile per Biden una ricomposizione anche parziale dei rapporti con Pechino, precipitati al livello più basso da decenni. La prima misura, approvata dal Dipartimento di Stato, limita ad un mese e ad un unico ingresso la validità dei visti concessi per turismo o affari ai membri del Partito comunista e alle loro famiglie, 270 milioni di cittadini cinesi delle più diverse estrazioni.
La seconda, che arriva invece dalle Dogane, vieta l’importazione negli Stati Uniti del cotone prodotto dal Bingtuan, l’organizzazione politico-militare che controlla vaste parti del territorio dello Xinjiang e che l’America accusa di sfruttare il lavoro forzato della minoranza uigura. Infine, potrebbe essere ancora allargata la lista delle aziende cinesi “controllate dall’esercito” su cui da gennaio nessun soggetto americano potrà investire, lista in cui la Casa Bianca ha inserito molte società che con l’esercito non hanno nulla a che fare, ma che rappresentano una minaccia al primato tecnologico americano.
La Cina ha intanto risposto condannando le misure. Quella sui visti, in particolare, è stata definita «un’oppressione politica». È improbabile però che sferri delle ritorsioni, visto che rischierebbero di rendere più difficile il primo contatto con la nuova amministrazione Biden. Anche considerato che questo colpo di coda di Trump e dei suoi consiglieri “falchi”, temutissimo da Pechino, sembra alla prova dei fatti piuttosto debole.
La misura dall’impatto potenziale maggiore in realtà è quella approvata ieri dal Congresso, una legge che obbliga le società cinesi a uscire dai listini di Borsa americani se non si adegueranno entro tre anni agli standard contabili statunitensi. Dietro questa norma c’è una lunga disputa: il governo di Pechino non permette all’autorità di vigilanza americana di fare verifiche sulle società di revisione contabile che operano in Cina e certificano le aziende locali.
Se il Dragone non aprirà a questa supervisione, società come Alibaba o China Telecom potrebbero venire cacciate da Wall Street e tutta China Inc. perdere l’acceso al più ricco mercato di capitali al mondo. Una misura significativa anche per la sua genesi bipartisan, a testimonianza di come l’imperativo di contenere il Dragone sia uno dei pochi temi in grado di mettere d’accordo Democratici e Repubblicani, ieri con Trump e domani con Biden. La norma è ora sul tavolo del presidente uscente, per una firma attesa in tempi brevi e potrebbe essere uno dei suoi ultimi atti alla Casa Bianca.
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