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Incontenibile Dumas

Alla nascita Alexandre Dumas è un bebè di quattro chili abbondanti. Quando muore, il 5 dicembre di un secolo e mezzo fa, ne pesa centodieci. È venuto al mondo scuro in volto perché il cordone ombelicale per poco non lo strangolava. Ma superata la cianosi resterà di carnagione bruna: suo padre, l'intrepido generalone Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie, è infatti un mulatto nato dall'unione tra un nobile scapestrato francese e una schiava haitiana. Papà Thomas è alto un metro e novanta, il figlio si fermerà a uno e ottanta. Scriverà trecento fra romanzi, racconti, poesie, opere teatrali, libretti d'opera, saggi, ricettari di cucina. Viaggerà dai Pirenei al Caucaso al Nordafrica. Attraverserà rivoluzioni e guerre. Lascerà una moglie, un oceano di amanti e una prole solo in minima parte censita: due figli riconosciuti, quattro no, ma lui si vantava di averne seminati in giro un cinquecento.
Le cifre contano. Perché, insieme al rivale Balzac e all'amico Hugo, Dumas forma nell'Ottocento la Trinità letteraria della dismisura, della penna sfrenata, dell'ispirazione incontinente. In lui tutto è extralarge, crapula di ambizioni, incassi, conoscenze, incontri, spostamenti, sesso, cibo, vino, politica. "Un Ego enorme, al pari dell'uomo, debordante di spirito e bonarietà" diranno di Alexandre i fratelli Goncourt, derogando per una volta alla loro abituale malevolenza. E George Sand, a epitaffio: "Era il genio della vita. Non ha sentito la morte".
Dumas non ha il genio poetico di Balzac né la potenza di Hugo, ma appartiene al ristrettissimo club dei classici che rendono la lettura un'esperienza di pura felicità. Non c'è altro modo per definire quanto provammo da ragazzini tuffandoci nei Tre moschettieri (come nei due sequel, Vent'anni dopo e Il visconte di Bragelonne, che gli sono perfino superiori) o in quell'incredibile vendetta lunga 1.250 pagine e intitolata Il conte di Montecristo. "Oggi Dumas farebbe serie tv" mi dice il sommo esperto francese Claude Schopp. E sia. Ma quanti adolescenti lo leggono ancora? – gli chiedo. "Resta l'autore francese più popolare al mondo. I dispositivi dei suoi romanzi sono eterni, funzioneranno sempre. Ma temo che ormai i lettori siano soprattutto adulti".
Anni fa consigliai Montecristo al figlio di un amico, che sapevo essere un gran divoratore di saghe fantasy. Quando lo ebbe finito, il responso fu: "Bello. Un po' lento". Certo, per lo più concepiti come feuilleton, i libroni di Dumas sono tutto fuorché rifiniti: straripano di incongruenze, ripetizioni, digressioni bubboniche, ma – specie nei dialoghi – rimangono, almeno per l'epoca, d'una velocità inaudita. A immagine dell'homme pressé che li scrisse: un colosso posseduto dal demone esistenziale e finanziario della fretta; l'impellenza di licenziare un nuovo capitolo, episodio, puntata. Dove il termine "puntata" ha anche qualcosa della scommessa, del gioco borsistico o d'azzardo.
Dumas era dotato d'ogni talento salvo quello di sapersi amministrare economicamente. Spendaccione, maître à dépenser, la sua esistenza fu un ottovolante di giganteschi guadagni e altrettanto voluminosi debiti, spettacolari crac. Un isomorfismo lega la scrittura dumasiana alla natura volatile, sfuggente del denaro, che è movimento oppure non è. Non ultimo tra i prodigi di monsieur Alexandre, c'è quello di aver combinato dimensioni apparentemente inconciliabili: romanticismo e industria, emozione e business. Applicando alla narrazione i ritmi tayloristici della fabbrica, Dumas anticipa Hollywood: "È sopravvissuto grazie al cinema" assicura Schopp. "Fino alla seconda metà del '900, nelle università era snobbato, considerato un po' cialtrone, un corsaro della letteratura che scriveva facendosi aiutare da collaboratori, il più noto dei quali si chiamava Auguste Maquet".
Con il suo fungo di capelli alla Jimi Hendrix e le labbra lussureggianti, con i suoi tre quarti di "negritudine", Dumas non sarebbe diventato chi divenne senza uno stuolo di "negri" a suo servizio, che oggi sarà più prudente definire ghost writer. Quei pennivendoli dell'ombra raccoglievano la documentazione dei romanzi storici, ne concordavano l'impianto con Dumas, buttavano giù la prima stesura che poi lui riaggiustava, soffiandoci dentro anima, stile, esprit. Più che uno scrittore, una società per azioni. La quale però – in barba ai puristi e ai mistici dell'autorialità – sfornava merci che, con frequenza imbarazzante, si rivelavano dei capolavori.
Per quanto in sovrappeso (ma attenzione, a quei tempi, le cicce, tanto maschili che muliebri, erano fonte di appeal), Alexandre Dumas è un personaggio a metà tra un atleta e un fenomeno da parco delle attrazioni. Qualsiasi cosa tocchi la trasforma in avventura. Repubblicano, ma affascinato dalle virtù cavalleresche Ancien régime, si getta a rompicollo nelle rapide di un secolo in subbuglio. Durante la rivoluzione del 1830 si muove da capopopolo. Trent'anni dopo finanzia e raggiunge in Sicilia Garibaldi – di cui sarà memorialista – nella spedizione dei Mille. "Ma i suoi legami con i patrioti italiani risalivano a decenni prima" precisa il professor Jocelyn Fiorina, altro "dumasiano" doc. Frugando negli archivi, ha scoperto che il nome dello scrittore spunta negli atti di un processo ai "cospiratori" della Giovine Italia datato 1833. "Già in contatto a Parigi con i fuoriusciti che frequentavano il salotto della principessa di Belgiojoso, Dumas mette piede per la prima volta in Italia fuggendo dalla Francia dopo il fallimento dei moti repubblicani". Ricercato da tutte le polizie, si aggira per la Penisola sotto falso nome e se ne innamora come pochi. "A Firenze scriverà un catalogo degli Uffizi oggi introvabile e farà rappresentare pièce teatrali usando uno pseudonimo" racconta Fiorina.
A Roma è incantato dalle antichità, ma della città papalina soffre il clima provinciale, clerico-bigotto. Nell'Urbe incontra Stendhal e una sera si fanno fuori diverse bottiglie di champagne. Ma il massiccio Dumas regge l'alcol meglio del signor Beyle, che è più anziano d'una ventina d'anni e dopo la sbronza rimane ko. Hanno entrambi l'Italia nel cuore. Però il "milanese" Stendhal è attratto dalla sofisticata civiltà settentrionale e incline alla malinconia. Mentre il pantagruelico Alexandre è un vitalista immune alla tristezza. Insegue ovunque la felicità e con i garibaldini la troverà a Palermo ("Paradiso del mondo"). "Quando durante la sollevazione vede rotolare a terra le teste delle statue dei Borbone, vive quell'esperienza come una rivincita personale sulle delusioni politiche accumulate in Francia" dice Fiorina. Ma la vera "epifania" avverrà a Napoli, che è tanta, è troppa, quindi una capitale a misura di Dumas. Conquistata la città, Garibaldi nomina l'amico francese direttore del museo archeologico e degli scavi di Pompei. "A Napoli" ricorda Claude Schopp, "Dumas è in piena esaltazione perché, dopo aver scritto di storia, se ne sente per la prima volta attore". Tra il 1860 e il '64 dirige un quotidiano di sua invenzione, L'Indipendente. Se lo scrive da solo, in francese, e lo fa tradurre. "Ne rimangono pochissime copie, tutte in italiano" dice Fiorina. "Degli originali dumasiani ancora nessuna traccia". I cacciatori di inediti sono avvisati.
Ma nella foga dell'azione, dell'idealizzazione, dell'autoaffabulazione, Dumas non perde lucidità analitica. A riguardo si leggano i profetici articoli (raccolti in volume da Donzelli) sulle origini sociali del brigantaggio e della Camorra. "Bastardo", figlio di un meticcio, Dumas sguazza nel meticcio Meridione come un pesce nel suo mare. È commosso dall'atavica – e a tutt'oggi poco corrotta – gentilezza dei siciliani: "Non sono solo artisti come gli antichi greci, ma anche ospitali come i saraceni e fastosi come i Normanni". Con Napoli il rapporto è meno contemplativo, più carnale, ma anche più problematico: "In questi diciotto mesi non mi ricordo che un napoletano mi abbia mai invitato a varcare la soglia della sua porta". E tuttavia, rielaborando la tragedia della repubblica giacobina del 1799, Dumas scriverà il più grande dei romanzi mai dedicati da uno straniero a Partenope: La Sanfelice, anno 1864, pagine 1.750 (Adelphi). Il successo che il libro ottiene in Francia convincerà Alexandre a rimpatriare. Se ne va a malincuore. Intanto, con suo vivo rammarico, l'Italia palpitante di Garibaldi diventava quella cerebrale di Cavour.
Come il coetaneo Balzac anche Dumas muore per eccesso di energia, di lavoro, di tutto. Ma, a differenza di Honoré, non muore nell'amarezza: si spegne nella dolcezza di una vita colmata fino all'orlo. "Istrione, teatrante nato, aveva vissuto per i suoi lettori. Immedesimandosi nel pubblico e nei personaggi che inventava". Un giorno, Dumas figlio sorprende il padre in lacrime alla scrivania. Alexandre sr. piange come un vitello perché per chiudere la trilogia dei moschettieri ha dovuto far morire l'adorato Porthos. Quella dell'ex spadaccino è tra le morti più strazianti nella storia della letteratura. Sempre da rileggere. O da girarne alla larga, soprattutto in tempi come questi.
Sul Venerdì del 4 dicembre 2020Original Article

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