Dalla prefazione di Alfonso Sabella, magistrato, diventato anni fa il responsabile ( a tempo) delle carceri italiane: «Gigi (…) mi fece girare un paio di sezioni dell’affollatissimo carcere meneghino dove si muoveva con la padronanza che può avere solo chi ci vive in una struttura così grande, fischiettando, quasi provocatoriamente, Ma mì, la storica canzone della mala milanese, e parlandomi esclusivamente delle persone che vi erano ristrette: " Vede, consiglie’, Mario, quel guaglione della cella 2, era ascit’ due anni addietro, aveva ‘mparato a fare l’elettricista, ma ha ripreso a spacciare e lo hanno appena riacchiapat’, adesso sarà dura convincere il magistrato di sorveglianza. E ‘o signore anziano che sta con isso, era un ebanista bravissimo, ma poi per colpa d’o frate de la moglie". Non so se Gigi conoscesse per nome tutti i 1.800 detenuti che c’erano in quel momento a San Vittore, ma certamente — scrive Sabella — conosceva le loro storie, criminali e personali, conosceva le loro emozioni, i loro turbamenti, le loro esigenze; e la mia mente, all’epoca, era ancora troppo ottusa e obnubilata di livore verso mafiosi e corrotti e corruttori che attentavano alla tenuta democratica del paese ».
Gigi è Luigi Pagano e ha scritto Il direttore, quarant’anni di lavoro in carcere, edizioni Zolfo, 18 euro. Un saggio, un’autobiografia, un racconto? Uno strano cocktail di tutt’e tre le categorie, nel quale c’è il cuore di Pagano: c’è il resoconto di che cosa sia il carcere, un mondo che conosce davvero come le sue tasche, incastonato dentro il sistema Italia e le leggi che scandiscono i cambiamenti delle persone detenute. Specie agli esordi, la carriera di Pagano era stata parecchio movimentata. Sette sedi diverse in sei anni, dall’isola di Pianosa alla Taranto dei 150 morti ammazzati del clan Modeo. Ma il « direttore Pagano », Gigi per moltissimi, è lo storico numero uno di San Vittore, ed era diventato un volto noto nell’epoca di Tangentopoli. E sebbene il suo non sia un libro di aneddoti, alcuni sono degni di una sceneggiatura.
Per esempio, Pasquale Barra, detto ‘o Animale (Pagano non lo chiama mai così), ha ucciso (è il 1981) il boss milanese Francesco Turatello, Francis faccia d’angelo, nel supercarcere di Nuoro. Dietro le sbarre le " esecuzioni" tra detenuti in quei tempi non sono rare, in Italia si spara e si muore, il terrorismo rappresenta ancora un grave pericolo. E un giorno il pluriergastolano Barra chiede un colloquio con Pagano. Il killer della camorra comincia a parlare della vita dietro le sbarre, la tira in lungo, sussurrando in dialetto napoletano, e all’improvviso, a uno stupito Pagano, seriamente propone: « Dottò, voi mi togliete dall’isolamento e io ve ne ammazzato due, chi volete voi » . Si riferisce ai brigatisti rossi, c’era poco da scherzare: «No grazie, io queste cose non le faccio», è la risposta glaciale.
Pagano ha sempre goduto della reputazione di funzionario statale rigoroso, ma con la mente libera. A suo modo, uno che vuole cambiare le cose. Uno che "apre" alle idee, che non va per partito preso. Lo dimostra quando dirige il carcere di Brescia. Pochi forse ricorderanno l’episodio, ma avvenne un totale inedito nella storia della tv e delle carceri: ci fu una puntata del Maurizio Costanzo show dal palcoscenico di Canton Mombello. Pagano aveva letto che il conduttore cercava « palcoscenici diversi » e gli scrisse, offrendogli quello all’interno del carcere. Il grande critico tv Beniamino Placido su Repubblica scrisse: « Mercoledì sera abbiamo visto in televisione un bel pezzo di romanzo dell’Ottocento » . Si erano visti i detenuti con le loro storie, con i loro " fatti" e « Costanzo — scrive Placido — ne ha isolati alcuni e li ha portati a confessarsi » , smitizzando così l’idea dei mostri, della rotella guasta nella testa dei criminali.
Il rischio che s’era assunto Pagano ( era ministro della Giustizia Mino Martinazzoli, considerato uno dei migliori politici italiani) aveva stupito chiunque: tranne chi conosce " Gigi". Da decenni infatti ripete un concetto che si fa sempre più diffuso. Anche se ancora oggi — basta leggere l’appello recentissimo di alcuni intellettuali — resta inapplicato: «Il trattamento è sicurezza » . E cioè, se il detenuto dietro le sbarre impara a fare qualcosa, se riflette su se stesso, se ha un dialogo con gli educatori, cala moltissimo la probabilità che torni a commettere reati. La società, se spende per le carceri, guadagna in sicurezza.
Adesso Pagano è in pensione, ha finalmente trovato il tempo di scrivere questo mix di ricordi e di analisi. In America a uno come lui Hollywood avrebbe forse dedicato un film, in stile Brubaker ( 1980, con Robert Redfort). Da noi — siamo seri, lasciamo ad altri la retorica — è già tanto se uno così ha concluso la carriera senza ombre e senza troppi intoppi. E lo sottolineiamo con amarezza ( soprattutto per tutti noi) e con un ricordo: quando i big della politica e dell’economia, durante la stagione di Mani pulite entrarono a San Vittore, conobbero "da dentro" le celle dell’istituto di piazza Filangieri, all’uscita giurarono che si sarebbero impegnati per rendere il carcere più civile. Poi, come accade, dimenticarono. Questo di Pagano invece è un libro che non dimentica. Un libro che mancava.Original Article
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