Il monolite argentato spuntato qualche giorno fa nel deserto dello Utah, diventato uno dei protagonisti sui social network fra meme e interrogativi assortiti, è sparito. L’agenzia locale del dipartimento dell’Interno ha precisato di non averlo rimosso ma ha appunto confermato che non è più dove si trovava, forse è stato rubato, e ha così confermato la notizia diffusa su Reddit da alcuni utenti che erano riusciti a raggiungere il luogo dove era stato posizionato chissà quando e chissà da chi.
Inizia dunque la caccia al monolite che, a dirla tutta, in pochissimi hanno visto davvero (una manciata di operatori del dipartimento di pubblica sicurezza dello stato e alcune persone che sono riuscite a fotografarlo e filmarlo), per ora se ne occuperà lo sceriffo locale. A quanto pare, secondo le immagini satellitari, quel blocco era lì da qualche anno e per alcuni potrebbe essere un’operazione dell’ormai scomparso scultore minimalista statunitense John McCracken. Al suo posto una mesta piramide di sassi.
Non è la prima né l’ultima storia per così dire ''fantasocial''. Con radici, cioè, più o meno concrete ma una sceneggiatura a seguire dipinta e arricchita dal forte carattere di storia da web. Tanto da travolgerne i connotati. Ed è molto probabilmente destinata ad assumere un contorno evergreen – c’è da scommettere che a breve quelle lastre rettangolari salteranno fuori da qualche altra parte, autentiche o fasulle che siano – come molte di quelle che seguono e che dai social e dal web hanno trovato nuova linfa o che ci sono letteralmente esplose.
di GIACOMO TALIGNANI
Un’altra vicenda nata e cresciuta su internet negli ultimi dieci anni è per esempio quella di Forrest Fenn e del suo misterioso tesoro nascosto da qualche parte nel bel mezzo delle Montagne Rocciose. Nel 2010 questo ex mercante d’arte ed ex pilota dell’Air Force, all’epoca 80enne, avrebbe infatti nascosto in un forziere di bronzo in stile romanico e in uno zaino monete antiche, pepite d’oro dell’Alaska, anelli e bracciali tempestati di smeraldi e zaffiri oltre a piccoli diamanti e maschere di giada cinesi. Un malloppo degno di una storia di Diabolik. Dopo aver occultato il suo tesoro ha negli anni distribuito una serie di indizi fra i libri (come l’autobiografia The thrill of the chase o Too far to walk) e le poesie che ha pubblicato perlopiù da solo e che sono raccolti in un sito dedicato. Da allora diverse migliaia di persone gli scrivono ogni anno e si lanciano alla ricerca del tesoro muovendosi su e giù per i 4.800 chilometri della catena montuosa, in certi casi rischiando o perdendo la vita. Lo stesso Fenn nel corso del decennio ha alimentato la leggenda di quelle ricchezze da (si dice) due milioni di dollari che lo scorso giugno qualcuno avrebbe finalmente individuato. Anche se non ci sono prove e in molti pensano che le dichiarazioni sulla scoperta non siano altro che l’ennesima, scivolosa trovata dell’ex pilota e gallerista di Santa Fe, amante della provocazione fino a sfiorare il sadismo e prendersi molte critiche. C’è perfino una (presunta) storia di hacking, dietro, e una denuncia nei suoi confronti. Di certo la storia del Fenn Trasure non è finita. Come quella del monolite. Almeno nella sua evoluzione sul web.
Altro grande classico è invece quello dell’Area 51: cosa c’è davvero nella base militare statunitense nel bel mezzo del deserto del Nevada? Astronavi aliene smontate e rimontate, cadaveri di creature provenienti da altre galassie, nani mutanti sovietici o addirittura set cinematografici per simulare lo sbarco sulla Luna, come sostengono i peggior complottisti? Nulla di tutto questo. Lo scorso settembre qualche decina di persone si è data appuntamento, grazie ai gruppi Facebook (due milioni di adesioni per l’evento “Storm Area 51- They Can't Stop Us All”, ma la realtà è sempre diversa dagli inviti sui social), nella zona della misteriosa base. Nessuno ha tentato di superare le recinzioni e la giornata si è conclusa con un paio di arresti e una colorata sfilata di entusiasti, fra ufologi improvvisati e youtuber scatenati. In realtà, come si diceva, c’è poco spazio per le dietrologie alla E.T.: l’Air Force Flight Test Center (Detachment 3), gestito dall’omonimo centro di sperimentazione aerea della base di Edwards, nel deserto del Mojave, e non dalla Nellis Air Force Base che ne avrebbe la competenza territoriale, affonda infatti le sue radici nella seconda guerra mondiale. Venne prima usata per prove di artiglieria e bombardamenti, fu poi abbandonata e recuperata in occasione dello sviluppo dell’aereo spia U-2 da parte della Lockheed Corporation insieme al governo di Washington. Il mito nacque proprio dagli avvistamenti di quegli apparecchi da parte dei piloti di linea, anche a causa delle incredibili altitudini a cui l’U-2 poteva spingersi rispetto ai tradizionali apparecchi.
di SIMONE COSIMI
Sempre sul web un’altra storia è tornata a fare capolino di recente. Quella dell’imbarcazione SS Cotopaxi, cresciuta a cavallo delle leggende, delle credenze e delle ricche panzane che hanno costruito nella seconda metà del secolo scorso la vicenda del Triangolo delle Bermuda. E la convinzione – priva di alcuna evidenza – che quell'ampia fetta di mare sia una delle più pericolose del pianeta. Ne avevamo parlato qui, quando avevamo tracciato una linea di continuità fra gli “alieni di Roswell” e uno dei libri che più di altri contribuirono a costruire, fra suggestione e bufale, l’epopea di quel pezzo di Atlantico: "The Bermuda Triangle" del 1974 di Charles Bertlitz. Che aveva tirato in ballo appunto pure la SS Cotopaxi, protagonista alcuni anni fa di una clamorosa bufala (smentita anche da Snopes, se ce ne fosse bisogno) in cui si raccontava che fosse tornata a galla da sola. È la nave che nel 1977 è finita perfino all'interno del film "Incontri ravvicinati del terzo tipo" di Steven Spielberg, dove viene collocata nel deserto del Gobi. Triangolo delle Bermuda a parte, la SS Cotopaxi varata nel 1918, alla fine del 1925 era diretta all'Havana, Cuba, dal porto di Charleston, in Carolina del Sud col suo carico di carbone: lo scorso febbraio è stata infine identificata come un vecchio relitto noto da anni in quella porzione di mare, ma rimasto senza nome. A due giorni dalla partenza, infatti, la nave a vapore s'imbatté in una violenta tempesta tropicale a 35 miglia al largo delle coste di St. Augustine, in Florida – un punto in realtà esterno al triangolo – ed affondò portando con sé i 32 membri dell'equipaggio.
Altre storie, a volte estemporanee e legate a una stagione altre volte più granitiche nel tempo, appartengono più al sottobosco della cultura digitale. Come quella dell’identità dell’inventore della più celebre criptovaluta del mondo, noto solo con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto e che ormai 12 anni fa pubblicò il protocollo Bitcoin, distribuendo l’anno dopo la prima versione del software client per poi progressivamente ritirarsi dalla community che ne ha traghettato l’uso al centro dei nuovi equilibri finanziari. Tre anni fa qualcuno si disse convinto che dietro Nakamoto si nascondesse niente meno che Elon Musk, il vulcanico patron di Tesla e SpaceX (a sostenerlo fu proprio un ex dipendente del gruppo aerospaziale dei Falcon e di Crew Dragon), lanciando una sorta di caccia al tesoro su Twitter, piattaforma prediletta dall’imprenditore di origini sudafricane.
di GAIA SCORZA BARCELLONA
Fra mitomani, falsi Nakamoto, studenti prodigio e gruppi di sviluppatori, la storia del geniale inventore – che qualcun altro pensava lo scorso anno di aver individuato in David Schwartz di Ripple, salvo incassare la sua puntuale smentita – rimane ancora in pasto alle leggende del web.
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