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Covid: l’epidemia ci ha rubato i riti, dal Natale allo sci

UNO DEI MIEI FILM PREFERITI vede il Natale con gli occhi di due bambini: Fanny e Alexander. Che poi sono gli occhi di Ingmar Bergman che, infatti, dice: "Io vivo sempre nella mia infanzia". Siamo nel 1907 e in casa Ekdahl si celebra la vigilia. Nonni, zii, cugini, nipoti, domestici. Fuori nevica, la tavola è imbandita, i regali sotto l’albero.

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Quest’anno, l’anno del pipistrello, il Natale non si festeggerà. O almeno non così. Si festeggerà in piccolo, alcuni ne patiranno la mancanza, altri si sentiranno sollevati. Ma per la prima volta, la tenace tradizione si fermerà. Niente baci, tavolate, tortellini, tombole. Un altro film che amo, "Les mistons", letteralmente “i monelli”, in italiano "L’età difficile", racconta, con la mano d’un giovanissimo Truffaut, l’estate di un gruppo di adolescenti e i loro turbamenti amorosi. Anche l’estate dei più giovani, quest’anno, ha obliterato molti riti stagionali, e in questo caso direi riti di passaggio. L’incantesimo del Covid ha sospeso il corpo dell’età difficile, gli ha tolto i baci e le danze. Alcuni hanno fatto finta di niente, ma tra questi c’è chi ha pagato, o fatto pagare, le conseguenze.

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Non si tratta solo di panettoni o rotonde sul mare: altre consuetudini sono sospese, in attesa di ratifica. Riti che, tutti insieme, contribuiscono a far di noi quello che siamo. Mentre le agende si riempiono di impegni online, webinar per i più grandi, storie instagram per i più giovani, le vite si svuotano di relazioni toccanti e delle loro consuetudini. Senza riti, personali e collettivi, affiorano le solitudini e qualche spaesamento d’identità.
Cos’è un rito? In questo caso lo definirei un’usanza, un appuntamento che rende speciale e al tempo stesso consueto un momento della giornata o dell’anno. Piccolo o grande, ha sempre un valore per la comunità. È un appuntamento che lega l’io al tu e soprattutto al noi. Anche l’inconscio – e quando il tratto è ossessivo ancora di più – tiene un registro delle ritualità personali. E sono tante oggi le tradizioni a cui dobbiamo rinunciare, adattandoci a surrogati in remoto.
Pensando al mio lavoro, ma anche alle mie passioni, di cosa sento la mancanza? Delle tesi di laurea con l’aula strapiena di parenti e amici festanti (una confusione che “prima” mi esasperava); dei convegni che irrobustiscono gli scambi nella comunità scientifica (quante volte ho pensato che erano invece inutili vetrine); delle occasioni in cui la musica o il teatro nutrivano il bisogno di un rito culturale (su questo non ho retropensieri).
Sono tanti gli appuntamenti che mancano alla nostra agenda emotiva, un’agenda che contribuisce a costruire le tappe del nostro sviluppo e a creare il senso della nostra identità: il calcetto, l’aperitivo, il pranzo dai nonni, il mercato rionale e quello delle pulci, le gite fuori porta, il progetto di un viaggio.

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Saper convivere con se stessi significa riuscire ad armonizzare, senza dissociarsi, le tante parti che ci compongono. Con una formula tecnica, noi psicologi diciamo “i nostri sé multipli”. Una convivenza interiore che immagino nella forma di un arcipelago sul quale il nostro io ha imparato col tempo a costruire ponti e varare vaporetti di collegamento. Una specie di Venezia psichica. Non a caso la saggezza alchemica, così cara a Jung, ha fatto suo il detto zenoniano “unus ego et multi in me”, elegante manifesto della molteplicità interiore. Tra i mantra della convivenza interiore, il mio preferito viene da un collega francese, Jean-Bertrand Pontalis, e dice che "ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi". Ecco, questo nostro mondo interno, questo funzionamento psichico, questi “luoghi dentro di sé”, proprio perché siamo una storia ma anche una geografia, esistono anche in virtù dei tanti luoghi che attraversiamo nel nostro mondo esterno, fisico, affettivo e sociale.
Se, dunque, proviamo a ricondurre la nostra molteplicità interiore a questa temporanea, ma non più estemporanea, perdita di consuetudini, direi che stiamo mettendo alla prova la tenuta della capacità di funzionare a vari livelli grazie alla possibilità di sperimentare diverse possibilità. Tutta la varietà del mondo e la molteplicità delle nostre consuetudini è ormai concentrata nel perimetro, insostituibile ma claustrofobico, di uno schermo casalingo. Una finestra che, anziché restituirci la profondità del paesaggio e dell’incontro, ci obbliga alla bidimensionalità delle esplorazioni virtuali e delle relazioni distanti. Per chi è in analisi o in psicoterapia, anche il rito della seduta – che non è solo “la seduta”, ma è anche il tragitto (a piedi, in tram, in bici o in treno) che precede e segue la seduta – oggi viene a mancare. Il passaggio dalla propria stanza a quella dell’analisi è on/off, privato della progressiva costruzione del percorso.

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Non mi lamento e penso che siamo molto bravi a fare di necessità virtù. Certo, accusiamo segni di stanchezza in forme d’implosione domestica, di esilio sull’isola casalinga quando eravamo abituati a fare island hopping tra i luoghi fisici e simbolici degli appuntamenti coi nostri molti sé. Ma quando la vicina di casa, che da molto prima dei lockdown e delle quarantene era sempre incollata a uno schermo, mi ha detto: "Il nuovo decreto mi ha tolto lo shopping e pure i nipoti a Natale", per consolarla senza fingere le ho risposto: "Però imponendoci gli schermi ci ha permesso di capire che questi non bastano e, forse, di scoprire com’era bella la vita estroversa che il virus ci ha tolto, ma quanto più bella potrebbe essere se imparassimo ad assaporare la vita introversa che il virus ci ha imposto".Original Article

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