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C’era una volta il papavero di Bracciano. E altre storie di piante insospettabili nate in Italia

Forse non tutti sanno che il papavero da oppio ha avuto origine sulle sponde del lago di Bracciano, e non nel continente asiatico. Che la prima testimonianza dell’uso del luppolo nella birra si trova a Pombia, in provincia di Novara, e non nel nord Europa. Che sono state coltivate per la prima volta proprio in Italia già nella preistoria piante come la cicerchiola, il nocciolo, il susino, il cavolo o il carciofo. Che l’Italia è una terra che vanta una biodiversità vegetale eccezionale che non trova riscontro in Europa. E che da popolazioni locali di vite selvatica sono stati selezionati vitigni importanti come nel caso del lambrusco.

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Sì, perché così come l’uomo discende da un antenato preistorico, anche piante e ortaggi che troviamo sulle nostre tavole hanno antichi progenitori. La differenza è che i “nonni” umani sono scomparsi nell’evoluzione che ha portato a Homo sapiens, mentre gli “avi” delle varie specie coltivate sono tuttora presenti in natura. Nel libro I progenitori delle piante coltivate in Italia (Meta edizioni), Aurelio Manzi, naturalista e botanico, va a caccia e fa il censimento dei più importanti parenti selvatici dei vegetali in coltura per uso alimentare, ricostruendone in una sorta di albero genealogico (è quasi il caso di dirlo) il processo di domesticazione.
“La rivoluzione più importante per l’umanità – spiega Manzi – nel corso della sua storia di quasi due milioni di anni, è stata quella neolitica: la scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento. All’uomo cacciatore e raccoglitore di prodotti vegetali spontanei si è sostituito l’agricoltore o l’allevatore”. “La nascita dell’agricoltura e della pastorizia nel vicino Oriente – argomenta l’autore – non è un fatto casuale ma legato alle risorse biologiche di quei territori. Proprio qui crescono i progenitori dell’orzo, del frumento della lenticchia, e di altri legumi. Ossia le prime piante a essere addomesticate e che hanno sancito la comparsa dell’agricoltura a livello mondiale”. I vegetali addomesticati e coltivati sono i veri protagonisti dell’agricoltura che, grazie al lavoro di generazioni di contadini, hanno plasmato il bel paesaggio agrario, una straordinaria opera d’arte che ha fatto dell’Italia il “Giardino d’Europa”.

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Il papavero sulle sponde del lago di Bracciano. Il papavero da oppio ha avuto origine sulle sponde del lago di Bracciano. Nel Lazio, dunque, e non nel continente asiatico oppure nel Mediterraneo orientale. Le prime testimoniane archeobotaniche inoppugnabili relative alla coltivazione della specie sono emerse nel sito neolitico de La Marmotta, nel 5881- 5636 a.C., nel comune di Anguillara Sabazia, ad una quarantina di chilometri a nord di Roma.
IL LIBRO

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Il papavero da oppio veniva inizialmente coltivato per i semi eduli, successivamente per gli alcaloidi contenuti nel frutto (capsula) tra cui la morfina, un potente sedativo ed antidolorifico. In Italia, la sua coltivazione era così importante che alcune popolazioni dell’Età del Ferro, come i Dauni in Puglia, raffiguravano la pianta frequentemente sui loro enigmatici steli e la associavano ad alcune divinità femminili, tra cui Cerere. Forse è il "nepente" degli antichi, il farmaco prodigioso che riusciva a lenire anche i dolori degli dei. Nelle campagne italiane, la specie veniva regolarmente coltivata negli orti famigliari fino a qualche decennio di anni addietro. Le capsule venivano raccolte, essiccate e conservate per lungo tempo. Con esse si preparava un decotto impiegato come potente sedativo per calmare e far dormire bimbi inquieti o persone anziane sofferenti. Ancora oggi, nei pressi dei ruderi degli insediamenti rurali o nelle periferie dei paesi, specialmente nel Meridione, è possibile imbattersi nei vistosi fiori rosei con una macchia nera del papavero da oppio, nato dai semi rimasti a lungo nel terreno.

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Nel Novarese il primo uso del luppolo nella birra. Anche l'uso del luppolo nella birra probabilmente è da ricondursi alla preistoria. La prima testimonianza attendibile è relativa al VI secolo a.C. e si riferisce a un insediamento dell’Età del Ferro proprio in Italia, a Pombia in provincia di Novara. E non dunque ai paesi dell’Europa occidentale o orientale come ci si aspetterebbe. In un bicchiere rinvenuto all’interno di una tomba a cremazione, sono state riscontrate tracce organiche riferibili a una bevanda ottenuta dai semi di cereali con prevalenza di orzo. Le analisi chimiche hanno rilevato anche la presenza di erbe per aromatizzare la bevanda, nonché resti di luppolo.
Il ritorno degli ortaggi dimenticati. Ma sono tanti nei nostri campi gli antichi ortaggi oggi del tutto dimenticati e abbandonati, e tornati allo stato selvatico. Come il macerone (grossa ombrellifera coltivata sin dal periodo romano), o il blito (le cui foglie cotte e preparate in diversi modi erano usate in cucina fino ad alcuni decenni fa), o il coronopo (nota come erba stella, si mangiavano le foglie), o la borragine (pianta dalle proprietà medicinali, se ne mangiavano foglie e fiori), o la porcacchia (già nota nel mondo classico per le sue virtù medicinali, ne parlano i medici greci quali Ippocrate, Dioscoride e Galeno), o l’acetosa (le foglie di questo romice dal sapore decisamente acidulo vengono impiegate per insaporire zuppe e altre pietanze), l’enula campana (pianta ampiamente coltivata nel periodo romano citata da Plinio il Vecchio), o barba di becco (questa composita dei prati pingui fu apprezzata in passato per la radice fittonante e grossa), o scorzonera (si mangiano in inverno le radici grosse e carnose).

Papavero setoloso (Papaver setigerum DC) (foto: Giuliano Campus)

Le piante addomesticate in Italia. Il processo di addomesticamento sistematico delle piante coltivate è iniziato nel vicino Oriente, circa 11-10 mila anni fa. Alcune piante, però, sono state coltivate per la prima volta proprio in Italia già nella preistoria. Il caso meglio documentato, appunto, è quello del papavero da oppio, Papaver somniferum L. Si tratta di una specie il cui progenitore, il Papaver setigerum DC, è presente sulle coste del Mediterraneo occidentale dov’è avvenuta la domesticazione. Il sito archeologico de La Marmotta, e l’insediamento neolitico Catignano in Abruzzo, hanno restituito anche i semi della cicerchiola soggetti già a un processo di selezione. Potrebbe trattarsi della prima testimonianza in assoluto della coltivazione di questo legume, la cui forma selvatica tuttora risulta largamente diffusa sul territorio nazionale.
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Oltre alla cicerchiola, anche il sorbo – tra i fruttiferi – è una specie la cui domesticazione è avvenuta in Italia. La sua messa a coltura è stata avviata nella Penisola tra l’Età del Bronzo e quella del Ferro; è probabile che i frutti trovassero ampio uso nella produzione di bevande alcoliche fermentate. Anche la coltivazione del nocciolo è cominciata in Italia, in particolare in Campania, tra il V e il IV secolo a.C. D’altronde, il nome di ''avellana'' con cui la pianta è conosciuta nel nostro Paese e in altre nazioni europee deriva da Abella, insediamento antico della Campania sannitica. Le prime attestazioni archeobotaniche relative alla coltivazione del susino inoltre sono relative alla Sardegna e si collocano tra il VI e il II secolo a.C. (resti carbonizzati di susino coltivato sono venuti alla luce anche in un insediamento del I secolo a.C. in Abruzzo).

Fioritura di Cynara cardunculus (Credits: Eugene Zelenko via Wikimedia Commons – CC BY-SA 4.0)

Dal cavolo al finocchio. La domesticazione del cavolo è attestata per la prima volta nell’Età del Ferro nel bacino del Mediterraneo ove si concentra la maggior diversità di specie del genere Brassica. Probabilmente, la pianta fu posta in coltura nel mondo Greco o nell’Italia Meridionale. La Sicilia sembra essere stato il teatro della domesticazione e messa a coltura del cardone e del carciofo a partire dal carciofo selvatico (Cynara cardunculus). Le prime notizie relative alla coltivazione del navone o colza, ortaggio di origine ibridogena tra il cavolo e la rapa, sono relative al nostro Paese e si riferiscono al periodo romano. Tra gli ortaggi, i romani – formidabili agronomi – hanno iniziato la coltivazione sistematica e la selezione agronomica della cicoria, del finocchio, del cappero, della pastinaca, del sedano e dell’asparago. A queste possiamo aggiungere diverse altre specie orticole ampiamente coltivate in passato e oggi dimenticate: macerone, enula campana, acetosella.

Vite selvatica

La vite selvatica. Tra le piante addomesticate in Italia in pieno Rinascimento o nel tardo Medioevo, vanno annoverate la scorzonera, la barba di becco, la valerianella, l’erba stella, i riscoli. Oltre alla domesticazione in loco di componenti della flora indigena, non va dimenticato l’apporto genetico delle specie selvatiche alla creazione di nuove varietà colturali a diffusione locale. Un esempio interessante è costituito dalle popolazioni di vite selvatica da cui sono stati selezionati vitigni autoctoni importanti come nel caso del lambrusco o delle innumerevoli varietà di olivo selezionate dalle popolazioni indigene di olivastro.
Perché conservare i progenitori. Messaggio importante del saggio di Manzi è salvaguardare l’esistenza di questi progenitori, preziosi custodi di un patrimonio botanico-genetico che può oggi avere un ruolo strategico nell’affrontare i grandi cambiamenti ambientali e sociali in atto nel pianeta (aumento della temperatura, salinizzazione dei suoli, comparsa di nuovi parassiti). Verso queste piante abbiamo avuto un rapporto di forte ingratitudine, nonostante l'importanza che tuttora rivestono nella vita quotidiana. "Molte di queste specie presentano gravi problemi di conservazione perché gli habitat in cui vivono sono stati sconvolti, a volte annientati. Un caso per tutti, le viti selvatiche un tempo diffuse su buona parte del territorio nazionale oggi ridotte in piccolissime popolazioni residuali”.

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“Il patrimonio di una nazione – commenta Manzi – non è costituito solo dalla sua storia, dalle tradizioni e dalle sue genti ma anche dal patrimonio biologico che essa esprime purtroppo troppo spesso maltrattato e dimenticato”. Ancora oggi, l’attività di addomesticare le piante selvatiche per uso alimentare risulta tutt’altro che sopita. Negli ultimi decenni sono state avviate, grazie all’iniziativa di singoli agricoltori, le colture di piante un tempo raccolte allo stato spontaneo per essere consumate: un caso emblematico è quello del lampascione in Puglia. Come spiega Manzi, “molti progenitori di piante coltivate sono a rischio estinzione, soprattutto per la frammentazione, degrado, o scomparsa del loro habitat, altre sono vulnerabili in quanto endemiche, cioè esclusive del nostro territorio”.
“Addomesticando una pianta selvatica – prosegue Manzi – la rendiamo idonea alla coltivazione. Questo avviene mediante un processo di selezione delle caratteristiche più idonee agli interessi umani che, talvolta, possono essere opposti a quelli della pianta stessa. Si può ad esempio selezionare una forma meno tossica, un vantaggio per l’uomo che la mangia, uno svantaggio per la pianta che così è meno difesa dall’aggressione di parassiti. A proposito del grano, l’uomo tende a selezionare ecotipi che hanno spighe con chicchi che non cadono alla maturazione facilitando in questo modo la raccolta, ma rendendo difficoltosa la disseminazione naturale. Più in generale la coltivazione, nel corso dei millenni, ha preferito piante con semi o frutti più grandi, con ridotti quantitativi di sostanze tossiche o repellenti. E’ importante dunque conservare i progenitori in quanto si possono attingere i loro geni maggiormente resistenti ai cambiamenti del clima, all’aggressione di parassiti e insetti, a periodi di siccità”.
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“C’è un collegamento molto stretto tra la flora spontanea e gli ortaggi, i cereali e i frutti che fanno parte della nostra alimentazione” sottolinea Sara Magrini, presidente della Rete italiana banche del germoplasma per la conservazione ex situ della flora italiana (Ribes). “Questa opera – dichiara Luciano Di Martino, direttore dell’Ente Parco Nazionale della Majella – ci rende tutti più consapevoli delle scelte coraggiose che addetti ai lavori e amministratori devono fare per garantire un livello adeguato di sicurezza alimentare, attraverso la salvaguardia delle specie selvatiche e degli habitat”.
"La Fao, nonché altre organizzazioni internazionali e nazionali, in considerazione dell’importanza strategica per l’agricoltura e l’alimentazione del futuro rivestita dai progenitori delle piante coltivate, hanno messo in atto diversi progetti di conservazione in situ ed ex situ per questi vegetali individuati con l’acronimo CWR (Crop Wild Relatives). In situ attraverso la tutela degli ambienti naturali in cui le specie crescono, ex situ con la conservazione dei semi, per lungo periodo, nelle banche del germoplasma”.
In Italia, un esempio virtuoso è quello del Parco Nazionale della Majella che ha messo in campo diverse iniziative per la tutela dei progenitori delle piante coltivate che si rinvengono all’interno di questa area protetta straordinariamente ricca di biodiversità.Original Article

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