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Calabria, tra i braccianti invisibili della Piana di Gioia Tauro che cercano di resistere al Covid

Adesso accanto alle tende del ministero dell'Interno ci sono le baracche. Sono identiche a quelle del vecchio ghetto, distrutto in fretta e furia per ordine dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini nel marzo del 2019, a stagione degli agrumi finita, popolazione dei braccianti dimezzata e senza un tetto alternativo neanche per i pochi che restavano. Da allora è passato più di un anno.
È arrivata una pandemia che ha chiuso l'Italia per mesi dentro casa ma non i braccianti, costretti a vivere senz'acqua, né servizi, né possibilità di distanziamento sociale, ma "essenziali" perché tutti continuassero a mangiare. C'è stata una regolarizzazione monca, che ha lasciato senza diritti, né tutele un esercito di lavoratori. E ci sono ancora, nascosti fra l'erba diventata alta, i detriti del vecchio ghetto. Nella fretta di buttare giù tutto, al Viminale all'epoca guidato da Salvini, hanno dimenticato di stanziare i soldi per la bonifica. Stracci, pezzi di alluminio e vecchie e arrugginite lamiere sono rimasti a deteriorarsi fra l'erba diventata alta. È da lì che arriva il materiale con cui le nuove baracche vengono tirate su.

Calabria, ecco l'ambulatorio di Emergency di Polistena: qui vengono curati i braccianti della tendopoli

Presente a Polistena, nella Piana di Gioia Tauro dal 2011, Emergency si è sempre occupata di dare assistenza a chi non ne ha. Per i braccianti africani, ancora costretti a vivere in tende, baracche o ripari di fortuna, per i lavoratori dell'Est Europa e per gli italiani indigenti spesso è l'unica speranza di cure mediche. Con la pandemia, le condizioni di vita e lavoro nell'area sono peggiorate. Nella tendopoli istituzionale, nata anni fa come soluzione "temporanea" allo sgombero della baraccopoli, ci sono ormai più di 600 braccianti africani. Alle tende istituzionali si stanno aggiungendo capanne realizzate con materiali di scarto. Chi ci vive è costretto a condividere tende e servizi igienici, in condizioni di promiscuità tali da rendere impossibile l'isolamento per i positivi. E solo organizzazioni umanitarie Emergency, Medu, Mediterranean hope e sindacati come Usb stanno fornendo assistenza, anche alimentare, agli abitanti del campo

Sono blu, come le tende istituzionali su cui campeggia il logo "Ministero dell'Interno", nate in file ordinate, oggi ridotte a cumulo di stracci rattoppati. È in una di queste che è tornato a vivere Foday dopo essere stato dimesso dagli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Gambiano, 39 anni, cardiopatico, è stato ricoverato d'urgenza dopo l'ennesimo infarto. Lì si è scoperto che era anche positivo al Covid19, anche se paucisintomatico. Ma questo non è bastato ad evitargli il ritorno in tendopoli dopo la dimissione dal reparto.

Cure, informazione e assistenza. L'ambulatorio di Emergency dove le cure sono davvero per tutti

Senza Covid hotel e con i posti letto ridotti all'osso negli ospedali, chi sta bene deve tornare a casa. Anche se la casa è una tenda, piantata insieme ad altre decine in un recinto in cui vivono centinaia di persone, costrette ad usare gli stessi dieci bagni. Anche se la promiscuità non è un'eccezione, ma la regola. Anche se l'isolamento è impossibile e per chi ci è costretto non c'è assistenza alcuna. Per cibo, medicine e beni di prima necessità, i positivi possono contare solo su organizzazioni come Medu e Mediterranean hope e sindacati come Usb. E per Foday, che da quarantenato non ha potuto neanche rinnovare le pratiche necessarie per il permesso di soggiorno e si è improvvisamente ritrovato senza tessera sanitaria, si tratta di farmaci salvavita.
"Facciamo riunioni in Prefettura da mesi, nessuno – né la Regione, né i Comuni dell'area, né l'Asp competente – possono dire di non essere informati. Adesso informeremo anche la magistratura" dice Ruggero Marra di Usb, che con gli altri attivisti e i legali del sindacato sta lavorando ad un esposto. "E la storia di Foday è solo un esempio. Una campagna di informazione e prevenzione nella zona della tendopoli non c'è mai stata, controlli e screening zero, tracciamento dei contatti altrettanto. Centinaia di lavoratori sono costretti da mesi in assembramenti necessari perché non sono messi nelle condizioni di andare altrove. E della cosa – denunciano – si discute dal marzo scorso". Ma sono rimaste parole vuote le promesse di alloggi per i braccianti che si sapeva sarebbero arrivati a migliaia per la stagione degli agrumi. Sulle carte dei protocolli e dei comunicati stampa con cui sono state annunciate, le campagne di controllo e prevenzione.
Quando sono stati accertati i primi casi di positività al Covid alla tendopoli e nel ghetto poco distante di Contrada Russo, ci si è limitati a dichiararli zona rossa. Per chi è rimasto chiuso dentro un recinto senza alcun tipo di servizio, non è stata prevista alcuna tutela. Anche l'assistenza sanitaria per i positivi, "isolati" in una tenda o un container per nulla distante dagli altri, è stata praticamente nulla. Ed è scoppiata la protesta. Dura, arrabbiata, di chi diceva "meglio morire di Covid che di fame". Sempre che all'esistenza dell'epidemia ci credano. Ignorati dalle campagne governative di informazione e prevenzione, in molti fra i braccianti hanno ceduto alla retorica – e alle velate minacce – di padroncini e caporali pronti a giurare che il coronavirus sia "malattia da bianchi" pur di avere braccia da mandare nei campi. Inutilmente sindacati e associazioni hanno provato a distribuire volantini, mascherine, guanti, igienizzante, a convincere tutti della necessità di sottoporsi a tampone. La fame, la necessità di lavorare morde di più.
Nonostante la campagna di screening sia stata un fallimento, dopo qualche settimana tendopoli e campo container non erano più zona rossa. Da allora, nessuno ha più controllato. I pochi positivi accertati vengono individuati solo perché sintomatici o perché si rivolgono per altre forme di malessere ai medici volontari. Fra loro ci sono anche gli operatori di Emergency.
Nella Piana ci stanno dal 2011. Prima con un ambulatorio mobile, dal 2013 con una vera e propria struttura nel centro di Polistena. È stata realizzata in un bene confiscato ai clan della zona e da allora è diventata un punto di riferimento per i lavoratori stranieri, ma anche per qualche italiano che non ha accesso alla medicina di base. C'è un servizio di assistenza medica e infermieristica e una navetta che consente a chi non ha mezzi per spostarsi di accedervi, uno sportello di supporto psicologico, ma anche operatori pronti a dare una mano a districarsi nella giungla burocratica che deve affrontare chi da straniero ha bisogno di cure.
Sulle pareti azzurre dell'ambulatorio c'è l'articolo 12 della Costituzione. Afferma che la salute è un diritto per tutti e non una concessione fatta ai nativi di un determinato Stato. E poi il numero 11 che ricorda che l'Italia ripudia la guerra. In due librerie ordinate ci sono testi in tutte le lingue, ma adesso non si possono toccare. "Questione di igiene e prevenzione" spiegano. Negli ambulatori bianchi, ordinatissimi, l'odore di disinfettante la fa da padrone. Le procedure di sanificazione sono scrupolose, i controlli forse ancor di più. Ma comunque di fronte alla dottoressa Alessia Perrotti, cinque anni fa arrivata da L'Aquila alla Piana di Gioia Tauro, passano quotidianamente decine di pazienti.
Per lo più, sono affetti da malattie da fatica, da sforzo sovrumano – lombosciatalgie, strappi, fratture, danni oculari – o da indigenza, mancanza di prevenzione e cure tardive. E sono loro oggi i più esposti al contagio e quelli che meno possono proteggersi. "Questa è una sindemia – dice il coordinatore del progetto, Mauro Destefano – Il termine, usato dalla rivista scientifica Lancet, significa che questa epidemia colpisce soprattutto le fasce più vulnerabili. Nei luoghi di precarietà socio-abitativa le persone si ammalano più facilmente e le loro condizioni si aggravano più facilmente". E basta pensare alla tendopoli o ai ghetti per capire il perché. "Banalmente – dice Destefano – non ci sono le condizioni per stare isolati. I braccianti sono costretti a vivere in sei o otto nella stessa tenda, in un luogo in cui nessun isolamento è possibile".
Emergency potrebbe fare qualcosa? Certo, rispondano dall'ambulatorio, sempre che mezzi e regole di ingaggio lo consentano. Ma gli interventi non si improvvisano, si pianificano. Pena, aggiungere caos al caos. Al momento, qualora uno dei pazienti che a Emergency si rivolgono dovesse presentare una sintomatologia compatibile con il Covid, gli operatori non possono far altro che segnalare il caso all'Azienda sanitaria competente perché venga sottoposto a tampone. Loro no, in ambulatorio non ne possono fare. Non sono autorizzati e nessuno all'Asp ha pensato di coinvolgersi in campagne di screening.
"Ma grazie al Comune di Polistena – spiega il coordinatore del progetto – stiamo fornendo assistenza logistica e medica ai controlli a tappeto e gratuiti della cittadinanza voluti dall'amministrazione". Questione di volontà, di programmazione. "Emergency si è resa disponibile a collaborare a proposte di intervento, anche noi già da marzo abbiamo fatto le nostre" dice Destefano. Il problema di base però è un altro. Il Covid – spiega – ha messo in luce le fragilità e i guasti di un sistema. Quelli di una sanità pubblica zoppa, con gli ospedali in affanno e la medicina territoriale desertificata. Quelli di un'area in cui la presenza ormai strutturale dei braccianti viene regolarmente derubricata a emergenza. Quelli di sistema di un Paese in cui centinaia di lavoratori sono costretti a vivere nell'irregolarità. "Questa emergenza avrebbe potuto essere l'occasione per superare questa condizione socio-abitativa di centinaia di persone, per costruire soluzioni strutturali". Ma non sono mai arrivate. E si continuano a rincorrere gli eventi. Emergency chiede di poter fare il suo, di dare un contributo. "Abbiamo fatto le nostre proposte. Rimaniamo in attesa di capire se potremo intervenire in qualche modo". Ancora.Original Article

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