LONDRA – “Dopo un’altra settimana di intensi negoziati, non ci sono ancora le condizioni per un accordo, a causa di significative divergenze. Le due parti hanno deciso di prendersi una pausa per fare rapporto ai rispettivi leader politici”. Quella che doveva essere l’ultima settimana di trattativa sulla Brexit si è conclusa così stasera a Londra, con un comunicato congiunto dei due negoziatori, Michel Barnier per l’Unione e Europea e David Frost per il Regno Unito. Ora la palla, per così dire, passa appunto ai leader: Boris Johnson e Ursula von der Leyen si parleranno in videoconferenza sabato pomeriggio per vedere se riescono a sbloccare lo stallo.
Come in un romanzo giallo che riserva i colpi di scena più drammatici per le ultime pagine, il negoziato sulla Brexit entra così nei suoi giorni decisivi in un altalenarsi di previsioni contraddittorie. “La Francia potrebbe mettere il veto a un accordo fra Unione Europea e Gran Bretagna, se i termini dell’intesa non fossero soddisfacenti”, ha affermato venerdì mattina Clément Beaune, ministro per gli Affari Europei francese e stretto alleato del presidente Emmanuel Macron. Parole che hanno seguito le indiscrezioni di giovedì sera, secondo cui la possibilità di un patto fra Londra e Bruxelles stava “recedendo”, mentre invece giovedì mattina appariva vicino, tanto da fare salire la sterlina al suo massimo valore in un anno nel cambio con il dollaro e con l’euro. Da Berlino, Angela Merkel invita a trovare ad ogni costo un compromesso. Il gran finale della Brexit, scrive il Financial Times, sembra risolversi in un classico “conflitto franco-tedesco”, con Parigi che si irrigidisce e la Germania che preme per maggiori concessioni.
Il thrilling finale era previsto: qualcosa di molto simile è avvenuto anche l’autunno scorso, quando l’accordo sul “divorzio” tra Gran Bretagna e Ue maturò all’ultimo momento, dopo un colloquio fra Boris Johnson e il premier irlandese Leo Varadkar, mentre tutto sembrava perduto. Succederà di nuovo, domani, con il colloquo fra il premier britannico e la presidente della Commissione Europea? La trattativa di queste ore, centrata non più sulle condizioni per l’uscita del Regno Unito dall’Europa bensì sui futuri rapporti commerciali e non solo tra Londra e il continente, è ancora più incerta di quella di autunno. Gli interessi in gioco, del resto, sono enormi: il 43 per cento di tutte le esportazioni britanniche sono con i 27 Paesi dell’Unione Europea.
Paradossalmente, gli ostacoli a un accordo di libero commercio, che regoli la cooperazione anche in campo scientifico, culturale e della sicurezza, non sono enormi. Uno di essi, in particolare, è un lillipuziano: mentre i servizi finanziari, che saranno duramente colpiti dalla Brexit, rappresentano il 40 per cento dell’economia britannica, la questione irrisolta dei diritti di pesca vale appena lo 0,1 per cento del pil britannico. Ma costituisce, per Londra come per Parigi e qualche altro paese Ue, un punto simbolicamente importante: agguerrite comunità di pescatori in Gran Bretagna, che hanno votato per la Brexit, si sentiranno tradite se tutto rimane più o meno com’è; non meno agguerriti porticcioli di pescatori francesi giureranno guerra a Macron, se non potranno più andare a pescare nelle acque del Regno Unito ricche di pesce. E con elezioni che si avvicinano, Macron non vuole sembrare debole, non solo davanti ai suoi pescatori, ma a tutta la popolazione francese.
Anche gli altri due aspetti che bloccano la trattiva non sono sulla carta insormontabili: i sussidi di Stato, che dovrebbero rimanere sullo stesso piano per evitare concorrenza sleale, e l’autorità chiamata a dirimere eventuali dispute in materia. Ma proprio sugli aiuti di stato pare che la posizione della Ue si sia irrigidita, dopo che il capo negoziatore europeo Michel Barnier era stato accusato, sempre secondo fonti anonime, di “eccedere il suo mandato” nella trattativa, in pratica di fare concessioni maggiori di quelle autorizzate dai leader dei 27.
Oltre che a un romanzo giallo, il tormentone della Brexit, iniziato quattro anni e mezzo fa con il referendum britannico che l’approvò, somiglia a una partita a poker, in cui i due giocatori bluffano fino all’ultimo giro di carte per potere concedere il minimo e ottenere il massimo prima di un’intesa che la maggior parte dei commentatori a Londra dà ancora per probabile. Ma il giro di carte attuale dovrebbe appunto essere l’ultimo. Con un accordo o senza, il famigerato “no deal” che provocherebbe gravi danni all’economia di entrambi i contendenti, il 31 dicembre il Regno Unito sarà definitivamente fuori dalla Ue, al termine dell’anno di transizione concordato dalle due parti durante il quale dovevano per l’appunto negoziare un’intesa e prepararsi al nuovo regime. Giovedì prossimo a Bruxelles è in programma il summit Ue che avrebbe il compito di ratificare l’eventuale accordo, poi da approvare con un voto del parlamento sia a Strasburgo che a Londra. Dire che il tempo stringe è un eufemismo: il tempo sta per scadere. E ancora non si capisce con certezza come finirà la Brexit.
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