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“Boetti, ti riporto in Afghanistan”

Roma
«Capo se ne è andato ma io non smetto di parlare con lui». Salman Ali si rivolge alla fotografia di Alighiero Boetti appesa alle sue spalle. Non sorride, nessuna enfasi. Lo dice e basta: «Questa notte è venuto a trovarmi. I suoi occhi non saranno mai completamente chiusi». C’è qualcosa tra loro, qualcosa che ha avuto inizio negli anni Settanta in Afghanistan e continua oggi, molti anni dopo la morte dell’artista, figura cardine dell’Arte Povera e Concettuale, genio del Novecento che il 16 dicembre avrebbe compiuto ottant’anni.
Ali compare in decine di fotografie: è a Roma nello studio del Pantheon e in quello di Trastevere, a Vernazza con Agata e Matteo bambini o a Quetta con Giordano, l’ultimo figlio di Boetti, in giardino nella casa di Romazzano (Todi) con Annemarie, la prima moglie del maestro, in ginocchio sopra una delle Mappe. È in Afghanistan e a New York, al Centre Pompidou e alla Biennale di Venezia accanto a Giulio Andreotti. Il suo volto, così come la sua presenza silenziosa, sono una costante nella biografia dell’artista eppure, nonostante le decine di richieste che gli sono arrivate nel corso degli anni, Ali non aveva mai parlato. Diceva che non riguardava nessuno, che era una cosa tra lui e Capo, che le parole non erano necessarie anche perché loro avevano sempre comunicato in altro modo, con gli occhi. Fino a quando a chiedergli di condividere i ricordi non è stata la sua famiglia. Nasce così l’autobiografia Salman AliGhiero Boetti, edita da Forma per Tornabuoni Arte, che ospiterà la collezione privata di Salman Ali, 30 opere regalategli da Boetti a testimonianza della loro lunga e profonda amicizia. La mostra, dato lo stato di emergenza in cui è precipitata l’Italia, è stata rinviata a gennaio, ma Ali ha accettato ugualmente di farsi intervistare: Roma, sede della fondazione Alighiero e Boetti, al suo fianco Agata, figlia dell’artista. È arrivata da Parigi, dove vive, per aiutarlo a riannodare i fili di questa lunga storia iniziata a Kabul.
1973. Boetti ha già aperto il One Hotel, un albergo di undici stanze, un ristorante e un giardino dove i viaggiatori stranieri si fermano a bere chai (un tè speziato) e fumare hashish sotto un pergolato di uva. Si firma Alighiero & Boetti, sdoppia il suo nome e affida le idee a innumerevoli mani che tessono arazzi. Ali è figlio di un contadino di Jaghori, un villaggio Hazara. Il suo destino sembra già scritto: per quanto l’Afghanistan sia ancora un paese in pace, attraversato da hippie e grandi viaggiatori, per lui è impossibile frequentare l’università o ottenere un ruolo importante in città. Gli Hazara sono da sempre contadini o servitori. Viene assunto all’One Hotel per preparare il chai e il Nescafè. Conosce così Boetti, che «non faceva il turista e nemmeno l’afgano, era solo lui».
Un giorno lo accompagna da Fatima e Abiba, le ricamatrici. «Il primo lavoro che ho visto è stato il disegno delle Mappe, il planisfero». Sa che la terra è rotonda, conosce il nome dei paesi confinanti con l’Afghanistan, ma niente più: «Mi chiedevo cosa fosse quella grande macchia rossa: la Russia!». Anche le ricamatrici non si fanno domande: «La forma dell’Italia, una lettera o un fiore non faceva differenza, seguivano le istruzioni». In Occidente quel procedimento solleva dubbi: dove finisce l’artigianato e inizia l’arte? Un giorno, parlando di religione, Ali dice che nell’Islam si può pagare qualcuno perché vada alla Mecca al tuo posto. Boetti risponde che è lo stesso per le sue opere e dopo neanche sei mesi gli chiede di raggiungerlo a Roma, per vivere insieme ad Annemarie e ai figli Matteo e Agata. «Ho dovuto imparare tantissime cose: a mangiare a tavola con il coltello e la forchetta, a entrare in una casa senza togliermi le scarpe, a usare la lavatrice, a prendere l’autobus. All’inizio andavo a lavarmi al Tevere, sotto ponte Garibaldi. Non avevo capito che ci si lavava in casa, in bagno». E poi la televisione, il più incomprensibile dei misteri. «Annemarie invitò a casa sua un attore, Roberto Bisacco, e quando lo vidi nello stesso momento seduto con noi e nella scatola mi spaventai tantissimo». Ali si occupa dei bambini, della spesa, cucina il riso kabuli e prepara il chai. Soprattutto aiuta Boetti: «Spostavo quadri, temperavo matite, spillavo ricami, aprivo la porta, andavo dal falegname, alle poste, anche in banca perché avevo la firma sul suo conto».
Il ragazzo afgano si ritrova immerso in un mondo di artisti e intellettuali: Alba e Francesco Clemente, Mario Schifano, Marco Bagnoli, Mariangela De Gaetano, Guido Nati, Guido Fuga, Piera e Giorgio Colombo, Giovan Battista Salerno, Achille Bonito Oliva, Sol LeWitt e tanti altri. Vede tutto, non giudica mai. «Sapevo quanti problemi avesse con la droga, quella porcheria, ma non ne ho mai parlato. Non c’era bisogno. Solo ogni tanto, quando mancava l’hashish, mi mandava da Mario (Schifano) o da Mariangela a prenderlo ma niente di più. Mi aveva insegnato a tenerlo in mano, in modo tale che se mi avesse fermato la polizia potevo buttarlo velocemente a terra. Alla fine vedevo e capivo quando Alighiero stava male e sapevo cosa fare. Me ne occupavo da solo, non riguardava nessun altro».
Per ventitré anni sono l’uno l’ombra dell’altro: «Un giorno eravamo a Vernazza, nelle Cinque Terre. Io mi ero allontanato per vedere il mare, volevo capire come fosse fatto. Entrai in acqua perché era molto gradevole e all’improvviso non toccavo più, stavo affogando ma Alighiero mi tirò subito fuori, mi aveva seguito per paura che mi avvicinassi al mare senza conoscere i suoi pericoli». Ali parla di una bella vita con una bella famiglia. Nel 1979 torna a Kabul con Alighiero: lo aiuta a gestire i contatti per la produzione degli arazzi e rivede il padre. Sono passati appena sei anni e l’Afghanistan è molto cambiato. «La guerra stava arrivando. Io ero preoccupato, Alighiero disperato. Annemarie gli disse di tornare immediatamente, io dovevo aspettare per fare il visto ma chiusero le frontiere e per me fu impossibile partire». Dopo due anni con un autobus non ufficiale raggiunge l’Iran e qui grazie a un contatto di Boetti con l’ambasciata italiana riesce a tornare in Italia. Boetti nel frattempo ha avuto un gravissimo incidente stradale, è in ospedale a La Spezia. «Tutto rotto e ingessato, non stava bene né con il corpo, né con la testa. Aveva molto male ed era molto triste. Iniziai a occuparmi di lui prima in ospedale, poi a casa. Non c’era più la famiglia, eravamo solo noi due, sempre insieme, senza parlare».
Lavorano e aiutano come possono la resistenza afghana: «Un giorno inviammo sulle montagne del Panjshir, ai soldati di Massoud, tremila paia di scarpe». Nel 1990 quando Alighiero si risposa Ali è al suo fianco: «Quando è nato Giordano mi sono occupato di lui come avevo fatto con Agata e Matteo. Ero felice. Capo mi disse che non dovevo più restare solo, che dovevo sposarmi e così tramite la mia famiglia conobbi Fatima». Quella che sarebbe diventata la madre dei suoi due figli arriva da Kabul a Roma nel 1994, pochi mesi prima che Boetti muoia: «Era sicuro che avrei avuto una bella vita con lei e così è stato». Si commuove pensando all’ultima Pasqua passata insieme, al pranzo con tutte le persone care: i figli, Annemarie, gli amici di sempre. «Anche se Capo ha chiuso gli occhi, la mia famiglia è sempre la sua». Agata sorride: «Finalmente Salman parla, a settantadue anni è giusto che sia lui a raccontare questa storia». Ali guarda di nuovo la foto di Boetti: «Un giorno torneremo tutti insieme in Afghanistan, disperderemo le sue ceneri nei laghi di Band-e-Amir, nella valle di Bamiyan, dove sorgevano le statue dei Buddha».Original Article

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