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Medico e mostro: ritratto di Nobel in nero

Uno dei casi letterari più interessanti degli ultimi anni è stato certamente Una vita come tante di Hanya Yanagihara: efficace, originale e potente, entrò nella shortlist sia del Booker Prize che del National Book Award. Sull’onda del successo di quel libro di culto, Feltrinelli pubblica Il popolo degli alberi, il romanzo d’esordio della Yanagihara, che venne accolto negli Stati Uniti con critiche entusiastiche (il New York Times parlò di una scrittrice “da seguire”, che “lascia a bocca aperta”) e ne conferma il talento insolito e appassionato.
Per apprezzare appieno questo bel romanzo, che si fregia di un’ottima traduzione di Francesco Pacifico, è necessario contestualizzare il retroterra dell’autrice, nata a Los Angeles da padre hawaiano e madre coreana. Sin da piccola, il viaggio ha rappresentato per la Yanagihara un elemento centrale della propria esperienza esistenziale e culturale: ha vissuto alle Hawaii, nel Maryland, in Texas, in California e a New York. Parallelamente, ha lavorato con successo come giornalista, alternando la collaborazione del New York Times con quella di Condé Nast Traveler, per cui ha scritto preziosi reportage: non può quindi stupire che Il popolo degli alberi sia ambientato in buona parte in alcune isole dell’emisfero australe. La storia è ispirata alla vicenda di Daniel Carleton Gajdusek, uno scienziato a cui venne assegnato nel 1976 il premio Nobel per la medicina per una serie di scoperte rivoluzionarie nel campo della virologia che partivano dallo studio della carne delle tartarughe. Nel momento di massima gloria lo scienziato venne però travolto dall’infamante accusa di pedofilia, finì in galera e quindi si ritirò a vivere nel Nord Europa, dove venne difeso da uno scienziato a dir poco controverso come Chris Brand.
Le denunce di abusi sessuali provennero da 7 dei 56 giovani delle isole micronesiane che Gajdusek aveva portato negli Stati Uniti per poter continuare le proprie ricerche, e la vicenda è stata oggetto anche di un documentario della BBC intitolato The Genius and the Boys. La scrittrice cambia i nomi dei personaggi, e sposa la tesi colpevolista, immaginando che un collega inviti lo scienziato a scrivere le sue memorie. «Purtroppo non si tratta solo di una tesi» racconta nella sua casa newyorkese, dove vive, senza viaggiare, da quando è iniziata la pandemia. «i crimini sono accertati, e lo stesso Gajdusek ne ha parlato negli ultimi anni della propria vita, arrivando peraltro a sostenere anche la libertà di incesto».
Qual è il suo stato d’animo rispetto al fatto di trovarsi di fronte a uno scienziato geniale che nello stesso tempo è un uomo che si è macchiato di crimini così gravi?
"Anche in questo caso devo dire che purtroppo non si tratta di nulla di straordinario: sono numerosi gli uomini di genio, anche nel mondo dell’arte, che nel privato si sono distinti per atteggiamenti orribili. Credo che da questo punto di vista il libro racconti qualcosa di eterno e nello stesso tempo molto attuale. Ritengo che ogni essere umano sia portatore di contraddizioni, a volte stridenti. Da un punto di vista narrativo l’elemento più interessante è cercare di capire se e come questi due aspetti si influenzano a vicenda".
Perché ha cambiato i nomi dei protagonisti?
"Non volevo realizzare nulla che fosse letterale: in un romanzo mi interessa la creazione, anche se i riferimenti sono assolutamente chiari. Sia mio padre sia mio zio lavoravano nello stesso settore di Gajdesuk, che per molto tempo ha rappresentato per loro, e per tutta la comunità scientifica, un mito. Nel periodo in cui facevo delle ricerche sono entrata in possesso anche di un diario tenuto da mio zio, nel quale registrava l’entusiasmo per le sue scoperte e l’orrore per i suoi atteggiamenti privati, ma ho preferito allontanarmi il più possibile da quanto leggevo".
Entrambi i protagonisti del romanzo sono voci narranti non affidabili.
"Mi sembra un elemento che enfatizza le contraddizioni a cui facevo riferimento. Inoltre la vicenda in sé è molto strana, per alcuni versi incredibile, a cominciare dai 56 ragazzi trapiantati dalla Micronesia negli Stati Uniti".
Il luogo dove avviene gran parte dell’azione, chiamato Ivu’Ivu’, non esiste.
"Anche la scelta dell’ambientazione nasce dalla volontà di distaccarmi: Ivu’ Ivu’ è ispirato in parte alle Hawaii e in parte all’arcipelago di Angra dos Reis, nell’area meridionale del Brasile. Cercavo un luogo simile alle Hawaii, ma con una vegetazione ancora più florida, come le isole brasiliane. Un posto incontaminato e di assoluta bellezza naturale".
Il romanzo sembra voler negare l’idea di una possibile redenzione.
"La storia su cui si basa ha pochi elementi di redenzione, e sarebbe grave proporre qualcosa di alternativo: per quanto mi riguarda trovo che sia non solo sbagliato, ma anche noioso offrire a tutti i costi un lieto fine".
Che influenza ha avuto nella stesura dei suoi romanzi il lavoro da giornalista e reporter di viaggio?
"Non credo che mi abbia influenzato molto sul piano del linguaggio, ma certamente mi ha aiutato per quanto riguarda la struttura, il ritmo e soprattutto la disciplina. Oltre a scrivere per i giornali sono tuttora l’editor di una rivista, e so cosa significa rispettare ad esempio una scadenza: il lavoro sul linguaggio deve andare sempre di pari passo con la consegna del lavoro, che ha tempi ben definiti. Uno dei grandi insegnamenti è che la libertà assoluta non esiste e può essere dannosa".
Un tema centrale del romanzo è l’arroganza occidentale nei confronti di paesi incontaminati, ritenuti culturalmente inferiori.
"È certamente così, ma ci tengo a dire che l’arroganza non è esclusivamente degli occidentali, ma di tutti coloro che hanno colonizzato, o che si sono posti con un atteggiamento di superiorità o supponenza nei confronti di popolazioni indigene. Un atteggiamento che diventa perfino più insopportabile quando si ammanta di un presunto spirito di nobilitamento o di una fasulla volontà di apprezzare le culture del luogo: la storia ci insegna che si è trattato sempre di un atteggiamento di conquista".
C’è qualcosa che accomuna i viaggiatori e i lettori?
"La curiosità e il senso di sospensione, che si ha prima di una pagina rivelatrice, o un luogo nuovo: il momento che precede l’epifania".
Tra i suoi riferimenti culturali lei ha citato Naipaul.
"È certamente uno dei miei riferimenti, ed è uno scrittore imprescindibile per chi ha vissuto l’esperienza coloniale. Amo in particolare i suoi primi libri, dove riesce a mescolare la miseria umana all’ironia. È una scelta artistica e morale nella quale forse si può individuale una possibile redenzione".
Il libro
Il popolo degli alberi di Hanya Yanagihara è edito da Feltrinelli, con la traduzione di Francesco Pacifico (pagg. 448, euro 18)Original Article

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