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La crisi politica dell’America e cosa ci aspetta

NEW YORK – A causa dello strapotere militare, finanziario e tecnologico dell’America, la disfatta della politica razionale negli Stati Uniti è in questo momento il fatto singolarmente più pericoloso al mondo. E se la recente sconfitta elettorale del Presidente Donald Trump è un passo necessario per ricondurre la politica americana alla sanità mentale, è soltanto il primo di molti altri che serviranno per frenare la spirale discendente degli Stati Uniti, convincendo il resto del mondo che il Paese non rappresenta più una minaccia per sé o per gli altri.
Ci sono due sfide urgenti che attendono l’America e il mondo all’indomani delle elezioni. Prima di tutto, il Presidente eletto Joe Biden deve cominciare la lunga e faticosa salita per ripristinare una qualche forma di stabilità politica interna. In secondo luogo, altre regioni del mondo dovrebbero cominciare a forgiare il proprio impegno per una cooperazione internazionale, invece di attendere invano che gli Stati Uniti riconquistino una leadership globale.

La crisi della razionalità americana

La profonda crisi della politica statunitense si è palesata in due modi quest’anno. Il primo, quando il governo federale ha fallito miseramente nel contenere la pandemia COVID-19 – o addirittura nel provarci. Ora che il 2020 giunge al termine, i numeri dei casi giornalieri si avvicinano ai 200.000, molto più alti dei picchi raggiunti in aprile e luglio. Nella settimana del 15-21 novembre gli Stati Uniti hanno avuto quasi 1,2 milioni di nuovi casi confermati, mentre la Cina, il rivale designato del Grande Potere americano, ne ha avuti appena 86, nonostante abbia 4 volte la popolazione degli Stati Uniti.
Il secondo, gli USA non possono più gestire le elezioni presidenziali secondo standard democratici basilari. Perché anche se il voto di per sé si è svolto molto ordinatamente, con un’ottima partecipazione e un processo di spoglio assolutamente trasparente e attento, l’elezione non ha prodotto il consenso necessario sul risultato. Trump ha falsamente e notoriamente reclamato vittoria la stessa notte delle elezioni e, man mano che Biden acquisiva vantaggio durante lo spoglio dei voti postali, Trump lamentava sfacciatamente la frode elettorale senza evidenza alcuna. Eppure, le affermazioni di Trump sono state spalleggiate da membri senior del Partito Repubblicano, da noti commentatori dei mezzi di comunicazione della compagine di destra, da un numero di gruppi Facebook che continuavano a fiorire e da una scioccante percentuale del 75% dei Repubblicani.
Si sarebbe tentati di biasimare Trump stesso per il fallimento del contenimento del COVID-19 e per il fiasco elettorale. E certamente il ruolo personale che Trump vi ha giocato è fondamentale. È un sociopatico e un demagogo, il cui repertorio politico ha contribuito a fomentare divisione, a eludere responsabilità e ad alimentare illusioni.
Ma ci sono alcuni fattori in gioco che vanno al di là di Trump. Questa è, in fondo, ben la quarta elezione presidenziale americana, nella stessa generazione, seguita da una crisi di legittimità. L’elezione del 2000 venne decisa da una controversa delibera della Corte Suprema che fermò il riconteggio dei voti in Florida, attribuendo lo Stato – e la presidenza – a George W. Bush per 537 voti. A seguito della vittoria di Barack Obama nel 2008, Trump instillò dubbi sul suo luogo di nascita e sulla sua cittadinanza. Il cosiddetto ‘birtherism’ fu tanto distruttivo della fiducia pubblica quanto falso e tendenzioso. Le elezioni del 2016 furono pesantemente influenzate dall’intervento Russo, che Trump accolse con favore e contemporaneamente negò. Inoltre, sia nel 2000, sia nel 2016, il candidato Repubblicano vinse il collegio elettorale benché non avesse vinto il voto popolare. E nonostante l’incredibile violazione personale delle regole perpetuata da Trump, la maggior parte dei leader del Partito Repubblicano, molti media e milioni di elettori hanno supportato e facilitato il suo comportamento fuori dalle norme. Trump non è semplicemente un individuo disturbato mentalmente, ma anche il sintomo di un corpo politico gravemente danneggiato.

Un grande potere fallito?

Gli eventi del 2020 sono un’aggiunta alla lista crescente delle debacles politiche Americane, sia estere che interne. A partire dal 2000, la politica estera americana è stata a dir poco erratica. Le guerre condotte o sostenute dagli Stati Uniti fin dal 2000 hanno creato disastri umanitari in Afghanistan, Iraq, Syria, Libya e Yemen. I due successi di politica estera, l’adesione all’accordo sul clima di Parigi e la negoziazione dell’accordo nucleare con l’Iran nel 2015, sono stati entrambi sovvertiti da Trump, nonostante un’opposizione praticamente globale.
In patria, gli Stati Uniti non hanno saputo reinvestire nella propria infrastruttura fatiscente, nonostante sempre più frequenti siano state le perdite dovute a disastri naturali, quali gli incendi nell’Ovest e le devastanti inondazioni conseguenti agli uragani. Oltre al COVID-19, gli USA hanno anche sofferto un’epidemia di quelle che, in modo agghiacciante e accurato, Anne Case e Angus Deaton chiamano “deaths of despair” (‘morti da disperazione’: suicidi, overdose di droghe, alcolismo), che hanno colpito le famiglie della classe operaia, senza alcun tipo di significativa risposta in termini di policy messe in atto per contrastarle. Inoltre, il deficit Americano è ormai cronicamente alto, circa il 5% del PIL – addirittura arrivato al 16% del PIL nel 2020 a causa del COVID-19 – il che riflette la mancanza di qualsiasi consenso politico rispetto al finanziamento a lungo termine e alle priorità del governo federale.
La lista continua. A testimonianza dello sfacelo del processo legislativo, non c’è stata davvero, negli ultimi 20 anni, una politica interna federale emanata dal Congresso, piuttosto che implementata per ordine esecutivo del Presidente. Le eccezioni, come per esempio l’Affordable Care Act (Obamacare) del 2010 e il taglio delle tasse nel 2017, sono state approvate grazie a margini minimi, senza ottenere alcun supporto da parte del partito perdente. Ci sono molte spiegazioni per questo declino della politica americana, e senza dubbio ci sono vari processi interrelati alla sua base. Analizzandoli, appare chiaro che, anche se la personalità trumpiana ha sicuramente aggravato la crisi politica americana, la sua presidenza riflette questo declino della capacità degli Stati Uniti di risolvere i problemi e di costruire consenso, che dura ormai da oltre quattro decenni.

Fonti di tensione sistemica

Tra i fattori che hanno determinato decenni di sempre più frequenti fallimenti nazionali e attacchi di malessere, gli osservatori hanno identificato una serie di trend economici, culturali e politici. Un rapido cambiamento tecnologico. Gli Stati Uniti e con loro altri Paesi ad alto reddito sono nella morsa dello ‘shock futuro’ previsto 50 anni fa dal futurologo Alvin Toffler. La veloce trasformazione verso l’era digitale ha profondamento turbato e diviso la società americana. Un abisso si è spalancato tra una classe di professionisti, con un diploma o una laurea, la maggior parte dei quali hanno sperimentato un miglioramento di reddito e stile di vita – e i lavoratori con titoli di studio inferiori, che hanno tendenzialmente sofferto diminuzioni di stipendio, pignoramenti domestici e gli effetti dell’automazione sul mercato del lavoro. Trump ha cavalcato il risentimento della classe lavoratrice bianca, che lo ha portato al potere nel 2016.
Il contraccolpo bianco. Gli Stati Uniti stanno vivendo una transizione a lungo termine da nazione prevalentemente bianca e Protestante, in cui de jure e de facto la discriminazione è prevalsa almeno fino agli Anni 60, a una nazione a maggioranza non-bianca, in cui le persone di colore stanno finalmente ottenendo per sé i diritti civili. A partire dagli Anni 70, questa situazione ha portato a reazioni spesso furiose da parte dei bianchi. Obama ha rappresentato l’avanguardia della nuova società multirazziale, e Trump il suo brutale contraccolpo. (Nelle settimane successive alle elezioni, Trump ha apertamente e sfacciatamente sollecitato i membri del comitato elettorale Repubblicano a non certificare i voti della Detroit a maggioranza Afro-Americana).
La fine della politica socialdemocratica. Gli Stati Uniti avevano un ethos socialdemocratico maggioritario, guidato e incarnato dal Partito Democratico, dal New Deal di Franklin D. Roosevelt (1933-45) alla Great Society di Lyndon Johnson. Il governo aveva ampliato la propria funzione di protezione sociale, in accordo con il movimento operaio organizzato. Poi, questo blocco maggioritario crollò dopo il 1968, essenzialmente perché l’era dei Diritti Civili degli Anni 60 aveva innescato un esodo degli elettori della classe operaia bianca e dei “Dixiecrats” del Sud nel Congresso verso il Partito Repubblicano. I Repubblicani divennero il partito del contraccolpo bianco e i conservatori sociali che si opponevano al “big government”, mentre i Democratici diventarono il partito dei professionisti, delle minoranze e dei progressisti sociali che volevano diritti ed eguaglianza razziale, di genere, sessuale e riproduttiva. Il largo consenso che la politica socialdemocratica aveva raccolto precedentemente stava collassando.
Il risveglio evangelico. Gli Stati Uniti hanno vissuto un’impennata di religiosità e attivismo Cristiano-evangelico bianco tra gli Anni 50 e i primi 2010. Molti Cristiani si sono spostati verso le grandi chiese conservatrici evangeliche, che predicavano una forma di letteralismo biblico antiscientifico e fortemente antigovernativo. I predicatori esortavano i fedeli a non pagare le tasse per finanziare i programmi sociali, ma a versare invece donazioni ingenti alle chiese per ottenere protezione e benefici divini. Gli evangelici bianchi si sono aggressivamente opposti ai diritti civili e ai programmi sociali progressisti, così come alla protezione sociale governativa. Erano sostenitori accaniti della Guerra Fredda quasi fosse una crociata contro l’Unione Sovietica senza dio, e più recentemente hanno appoggiato le guerre contro i militanti islamici e le guerre commerciali contro la Cina atea. Nel 2016 e nel 2020, hanno votato in massa per Trump.
Plutocrazia. L’ingorgo politico ha favorito gli interessi degli Americani più benestanti, che hanno beneficiato grandemente del più consistente trasferimento di ricchezza dalla classe povera e media a quella ricca mai avvenuto nella storia umana, oltre a essere rassicurati che la paralisi politica avrebbe tenuto lontane nuove tasse federali. La plutocrazia è stata ulteriormente incoraggiata dalle successive sentenze della Corte Suprema, che hanno permesso contributi illimitati alle campagne elettorali. Si stima che nelle elezioni 2020 siano stati spesi $14 miliardi, con ciascun partito supportato da dozzine di miliardari.
Istituzioni politiche antiquate. La longevità delle istituzioni politiche americane è una lama a doppio taglio. Il nucleo del sistema costituzionale statunitense risale al 1787. Include anomalie disfunzionali come il Collegio Elettorale, il sistema di voto first-past-the-post nei distretti elettorali uninominali e un Presidente con un potere eccessivo. Queste istituzioni sono ormai assorbite nel sistema politico americano, anche se portano a una sovra-ponderazione dei voti di Stati scarsamente popolati, un sistema bipartitico che distorce gravemente la pubblica rappresentanza, un esecutivo autocratico, un Congresso quasi moribondo e una Corte Suprema che è stata strumentalizzata dai partiti al potere.
Social media. Marshall McLuhan aveva ragione quando diceva che cambiamenti fondamentali nei mezzi di comunicazione implicano cambiamenti in politica e cultura. Le trasmissioni radio e la diffusione ampia dei quotidiani avevano portato alla nascita delle relazioni pubbliche, della pubblicità e della politica altamente personalizzata attraverso la comunicazione di massa. I nuovi social media hanno portato alla disintegrazione di un'unica conversazione nazionale e a una pervasiva rappresentazione distorta della realtà. Con tante ‘verità’ quanti sono i gruppi Facebook, l’accordo sui fatti di base e soprattutto il consenso sul loro significato, sono venuti a mancare.

La squallida eccezione americana

Ognuno di questi fattori ci illumina su uno degli aspetti della realtà odierna. Alcuni di essi sono comuni alla maggior parte delle democrazie ad alto reddito. L’Europa Occidentale, come gli Stati Uniti, si trova ad affrontare le nascenti disuguaglianze che derivano dal cambiamento tecnologico, il crollo del consenso provocato dai social media e le crescenti divisioni politiche causate dalle tensioni che accompagnano l’evoluzione della composizione etnica nelle loro società. In America, il cambiamento etnico riflette la percentuale in crescita della popolazione Latino-Americana e Asiatica, mentre in Europa è stato dettato da decenni d’immigrazione dal Medioriente e dall’Africa.
Eppure, molti fattori sono specifici degli Stati Uniti. L’Europa non ha sperimentato lo sfascio delle norme socialdemocratiche, che sono profondamente integrate nelle leggi e nelle istituzioni europee. L’Europa non ha una radicata politica suprematista bianca, che gli sconvolgenti crimini del Nazismo hanno screditato e sradicato ben più scrupolosamente. L’Europa non ha neppure il conservatorismo sociale politicizzato di matrice religiosa che vediamo tra gli Evangelici americani bianchi. E in virtù della propria storia decisamente tumultuosa, in particolare delle guerre e delle rivoluzioni del diciannovesimo e del ventesimo secolo, le democrazie parlamentari europee sono generalmente più moderne e meglio strutturate del modello presidenziale americano, risalente al diciottesimo secolo.
Non ci saranno soluzioni rapide per gli Stati Uniti. Soltanto grazie a un po’di fortuna e a una leadership qualificata l’America potrà emergere dalla spirale discendente di divisione interna e di conflitto esterno che ha caratterizzato il Paese per oltre quarant’anni. Biden cercherà di sanare le divisioni americane, un compito per il quale è ben equipaggiato. É un centrista, un moderato, un razionale e un gentiluomo. Comprende la disaffezione dell’America bianca così come ogni altro leader politico americano, sapendo benissimo di dover conquistare il supporto dei cosiddetti swing States (gli Stati in cui le due maggiori forze politiche opposte praticamente si equivalgono) e dei Repubblicani al Congresso, e non di schiacciarli. E non porta rancore. Sa che le gomitate fanno parte della politica e sa come scrollarsi di dosso saggiamente colpi, insulti e affermazioni assurde. Ma questi tratti positivi della sua personalità non basteranno. Quando il predecessore di Trump, Obama, entrò in carica nel 2009, i Democratici controllavano Camera e Senato, e cominciarono subito a far passare leggi con voti provenienti quasi esclusivamente dal loro partito, contro l’opposizione Repubblicana. Questi voti provenienti da una sola parte erano inusuali per il Congresso americano ed erano espressione di una chiara polarizzazione politica. Ma a partire dal 2010, anno in cui i Democratici persero la maggioranza alla Camera, il governo è sempre stato diviso, con l’eccezione del 2017-18, quando i Repubblicani controllavano sia la Camera, sia il Senato. Questo ha bloccato praticamente tutte le iniziative legislative.
Le democrazie parlamentari possono funzionare abitualmente con il solo voto di partito, perché il governo (quasi per definizione) ha la maggioranza o la pluralità dei voti necessari per emanare leggi. Negli Stati Uniti, invece, quando il Presidente e almeno una delle Camere sono controllati da due diversi partiti, oppure quando c’è una coalizione di blocco efficace nel Senato composto da 100 membri, grazie alla regola dell’ostruzionismo (che richiede una super-maggioranza di 60 voti per legiferare in alcuni casi) il solo voto di partito significa paralisi.
C’è una scarna possibilità che Biden abbia una maggioranza effettiva in entrambe le Camere, se i Democratici dovessero vincere i due ballottaggi al Senato in Georgia il 5 gennaio. Una vittoria netta per i Democratici assegnerebbe 50 seggi a ciascun partito, con la possibilità per la Vicepresidente eletta Kamala Harris di esprimere il voto decisivo.
É più probabile, però, che Biden avrà bisogno di voti Repubblicani in Senato e qualche volta anche alla Camera (in caso alcuni Democratici votassero contro il Presidente). Tutto questo contrapporrà i fattori strutturali divisivi agli imperativi legislativi che prevedono azione e cambiamento. Biden dovrà quindi necessariamente conquistare alcuni moderati Repubblicani per far ripartire gli ingranaggi del governo federale.
Nel sistema americano, un Presidente può persino fare a meno della legislazione. Trump ha gestito la sua intera politica estera, inclusi commercio e sanzioni, praticamente senza alcun input da parte del Congresso, e anche Biden senza dubbio governerà per decreto, almeno in alcune aree. Questa pratica ha però numerosi e seri svantaggi. Prima di tutto, è autocratica. In secondo luogo, gli ordini esecutivi di per sé non portano a sbloccare il finanziamento federale, ma solo a modifiche normative. Terzo, gli ordini esecutivi possono essere facilmente aboliti dal Presidente successivo, e come tali non sono vincolanti per i futuri governi, né producono i cambiamenti di lungo termine necessari per gli investimenti economici.

Esecutivo ma attivo

In ogni caso, Biden non avrà altra scelta se non quella di emettere ordini esecutivi all’inizio della sua amministrazione. Sarà necessario per ristabilire il ruolo federale nel contenimento del COVID-19, indispensabile per superare la crisi. Allo stesso modo, Biden non potrà contare sul Congresso per far rientrare gli Stati Uniti nei trattati e nelle agenzie delle Nazioni Unite, incluso l’accordo sul clima di Parigi e l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Molto probabilmente cercherà anche di riportare gli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare con l’Iran e in alcune agenzie e processi dell’ONU, oltre ad annullare varie misure tariffarie e sanzioni unilaterali imposte da Trump. E probabilmente annuncerà, sempre per ordine esecutivo, l’obiettivo net-zero per le emissioni di gas serra (la cosiddetta ‘neutralità climatica’) entro il 2050, in linea con Europa, Giappone, Corea e Cina (che ha stabilito il proprio entro il 2060).
Dovrà comunque fare ben più di questo per sbloccare l’impasse al Congresso, che potrà essere risolto solo se un numero sufficiente di indipendenti e Repubblicani lo seguiranno. Per forza di personalità e per visione politica pragmatica, Biden ha le competenze per ottenere questo risultato. La questione è se oggi gli Americani, così profondamente divisi, possano risvegliare la loro assopita capacità di ragionare insieme.
Biden dovrà saper convincere gli elettori della classe operaia bianca che il controllo del COVID-19, un’assistenza sanitaria più accessibile, tasse più elevate per i ricchi e lo sgravo del paralizzante debito studentesco sono politiche pensate per loro e destinate a loro e alle loro famiglie, e non indirizzate primariamente ai sostenitori del Partito Democratico, che questi elettori rifuggono. Per ottenere un supporto trasversale, Biden deve saper vendere l’inclusività delle politiche socialdemocratiche, invece che appellarsi a una base identitaria.
Biden deve anche convincere un numero maggiore di elettori che una transizione dal fossile alle energie rinnovabili porterà vantaggi a tutto il Paese. Per fortuna, la maggior parte degli Stati americani, siano essi blu (Democratici) o rossi (Repubblicani) ha un enorme potenziale ancora non sfruttato di energia eolica e solare. Inoltre, gli swing states dell’area industriale del Centro (tra cui Wisconsin, Michigan e Ohio) e degli Appalachi del Nord (tra cui Pennsylvania, Kentucky e West Virginia) potrebbero giocare un ruolo decisivo nella costruzione di pannelli solari, turbine e veicoli elettrici che rappresenterebbero il cuore dell’economia a basse emissioni di carbonio. I sindaci di otto tra le principali città del Centro industriale hanno recentemente auspicato proprio questo genere di politica di re-industrializzazione per costruire la nuova green economy.

Il mondo dopo l'America

Qualsiasi cosa accada in America negli Anni 2020, alcune importanti lezioni per il resto del mondo sono ormai chiare. La più importante è che gli Stati Uniti saranno, nel migliore dei casi, un partner gregario nella prossima decade. La nazione è troppo ferita e divisa – e spesso confusa e screditata – per poter esprimere una leadership globale. La regione dell’Asia Pacifica ha ampiamente superato economicamente USA ed Europa durante la pandemia e continuerà a guidare la crescita globale nel 2021.
L’Europa, soprattutto, deve guardare al di là della sua relazione logorata con gli Stati Uniti per forgiare la propria politica estera, compresa quella di sicurezza e di difesa, cercando al contempo di sviluppare la propria competitività nelle nuove tecnologie digitali. L’America di Biden sarà un ottimo partner, ma non sostituirà la necessità dell’Europa di diventare ‘strategicamente autonoma’. Inoltre, l’Europa è leader nelle politiche di sviluppo sostenibile e dovrebbe usare questa posizione per promuovere la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale nel mondo.
L’Unione Europea dovrebbe elaborare le proprie politiche di cooperazione con la Cina, invece di nascondersi dietro gli Stati Uniti. E dovrebbe continuare a fare da guida nelle questioni di governance globale, quali tassazione, sicurezza e privacy digitali, aree in cui l’Europa è molto più avanzata degli Stati Uniti e tale rimarrà per decenni.
L’Asia, dal canto suo, ha l’opportunità di liberarsi da un’America ossessionata, con una mentalità da guerra fredda, dall’idea di ‘contenere’ la Cina isolandola dai suoi vicini – un’idea assurda che, nonostante lo sia, ha recentemente animato entrambi i partiti americani. L’economia in crescita e la forza tecnologica dell’Asia saranno implementate al meglio da forti istituzioni regionali. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), recentemente firmata, che prevede un’area di libero commercio comprensiva delle dieci nazioni dell’Associazione del Sudest Asiatico, insieme a Cina, Giappone, Corea, Australia e Nuova Zelanda, fa sperare in una promettente collaborazione all’interno dell’Asia, così come tra Asia e resto del mondo.
In realtà, l’amministrazione Biden dovrebbe guardare con favore a un’Europa forte e a iniziative regionali come la RCEP, e anzi introdurre gli Stati Uniti come partner collaborativo. È ormai passata l’era della leadership egemonica, sia essa degli Stati Uniti o di un altro Paese. I problemi ambientali, sociali e di sicurezza del mondo intero sono oggi così complessi e interconnessi, che solo una forte collaborazione interregionale potrà davvero farvi fronte. Il successo di Biden nel guarire le ferite dell’America divisa sarà essenziale non soltanto nel ripristinare la ragionevolezza politica e la capacità di risolvere i problemi in patria, ma anche per permettere agli Stati Uniti di portare il proprio contributo costruttivo alla cooperazione globale, di cui tanto urgentemente abbiamo bisogno.
(*) Direttore del Centre for Sustainable Development di Columbia University, direttore di UN Sustainable Development Solutions Network e co-Presidente della Regenerative Society Foundation
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